sabato 8 marzo 2008

Ru486, i vantaggi superano gli svantaggi

l'Unità 8.3.08
Ru486, i vantaggi superano gli svantaggi
di Silvio Viale

Nel ’99 fu registrata in 12 dei 15 Paesi della Comunità Europea, oggi la Ru486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina

Eugenia Roccella e Assuntina Morresi sono impegnate da tempo in una campagna di stampa contro la RU486. Sulla base del più classico pietismo antiscientifico sono giunte a contare 16 morti e a denunciare un clima di omertà internazionale che vedrebbe complici l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), la Fda (Food and Drug Administration, «Agenzia per gli alimenti e i medicinali»), l’Emea (European Medicines Agency, «Agenzia europea per i medicinali») e le agenzie farmacologiche di mezzo mondo. Non badando troppo alla insistente ripetitività dei loro articoli, ho preferito continuare a documentarmi sulle riviste scientifiche, relegando al campo del furore ideologico le interpretazioni del duo militante anti-ru486.
Il tempo mi ha dato ragione. Nel 2005 l’OMS ha inserito la RU486 nell’elenco dei farmaci essenziali. Nel giugno 2007 la Commissione europea ha approvato le nuove indicazioni per l’Europa dopo una revisione iniziata nel dicembre 2005. Sulla base di queste indicazioni nel novembre 2007 è stata avviata dalla Francia una procedura di mutuo per l’Italia, come quella che nel 1999 portò a registrare la RU486 in 12 dei 15 Paesi della CE. Oggi la RU486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina. Grazie anche alle polemiche, che hanno scoraggiato la ricerca di nuove molecole, è l’unico farmaco della sua categoria utilizzato nell’uomo da venti anni. Un elenco parziale di queste ricerche riguarda varie indicazioni ostetriche, i tumori di ovaio, utero, prostata e mammella, l’endometriosi, i miomi, il meningioma, la depressione bipolare, i disordini psicotici affettivi, l’Alzheimer, la sclerosi multipla, la sindrome di Cushing e lo stress postraumatico.
Si tratta quindi di un farmaco, peraltro già autorizzato in Italia dal 1999 per la Sindrome di Cushing, ed il fatto che gli oppositori si ostinino a definirlo un «chimico» rende bene l’idea del pregiudizio; nessuno definirebbe un chimico qualunque altro farmaco. Ugualmente, termini come kill-pill, pesticida umano o diserbante possono essere efficaci nella polemica giornalistica, ma minano la credibilità scientifica di chi li adopera. L’ovvia intenzione è quella di terrorizzare le donne e insinuare il dubbio in un mondo politico scientificamente pigro, disattento ed opportunista. Ripetere insistentemente lo «scandalo» delle morti si presta bene a creare incertezza, facendo leva sull’emotività.
Per esemplificare, pensate un po’ cosa accadrebbe se due giornaliste donne raccontassero le storie delle almeno trenta donne che ogni anno muoiono in Italia per gravidanza e accusassero di omertà il sistema sanitario, le associazioni professionali e la stampa. A conferma dello scandalo, nessuno sa quante siano le donne che muoiono in gravidanza in Italia, al di là del tasso ufficiale di 6-7 per 100.000 gravidanze. Sarebbe facile sostenere che nessuno se ne cura, a parte qualche articolo a sensazione, con la rituale dichiarazione strampalata di qualche politico di turno del tipo che «non è possibile morire in gravidanza nel 2000 in Italia». Eppure di gravidanza si muore ancora, come sporadicamente si muore anche per aborto.
La storia delle morti per RU486 è una grande mistificazione statistica e mette assieme cose diverse.
L’unica cosa importante è la segnalazione di sei morti in Nord America per shock settico attribuite cinque al Clostridium sordellii e una al Clostridium perfrigens.
Su queste morti l’Emea esclude «un nesso potenziale con il mifepristone» e negli Stati Uniti si è avviato un monitoraggio. Approfondendo il tema a ritroso, si è scoperto come tali infezioni, sebbene rare, siano state segnalate in neonatologia, in ortopedia, tra i tossicodipendenti e in altre condizioni mediche. In una review del 2006 sono elencati 45 casi, da 17 giorni di età a 95 anni, con una mortalità complessiva del 70%, che diventa 100% per i 15 casi di ostetricia: otto casi dopo il parto, due per aborto spontaneo e cinque per aborto medico. Il Clostridium è stato isolato anche i sei neonati dei quali cinque morirono. Come scrive l’Aifa nel numero di ottobre della propria rivista si tratta di «un numero limitato di eventi rari senza un chiaro legame fisiopatologico con il metodo utilizzato». Importante è che il medico lo sappia e che la donna sia informata. Nello studio clinico dell’Ospedale S.Anna di Torino si informava di un rischio di mortalità di 1 per 100.000, che ovviamente non ha scoraggiato alcuna donna dal parteciparvi.
Come già accennato, nel loro elenco Roccella e Morresi mescolano cose diverse, con differenti livelli di evidenza.
Per quanto riguarda le morti inglesi, non ufficialmente confermate, si deve ritenere che le indagini delle autorità sanitarie abbiano escluso ogni nesso causale. Il caso svedese riguarda una complicazione emorragica in una paziente che non si è recata in ospedale, come avrebbe dovuto fare. Quello francese del 1991 è legato all’uso endovena della prostaglandina che si utilizzava all’epoca per gli aborti terapeutici e che da tempo non si utilizza più. In Italia abbiamo continuato ad utilizzarla fino a pochi anni fa. Il caso cubano che riguarda un aborto del secondo trimestre eseguito con le sole prostaglandine, senza RU486 (cioè nello stesso modo come lo facciamo in Italia) che è stato segnalato al congresso della FIAPAC (associazione europea operatori aborto e contraccezione) da un medico spagnolo che passa molto tempo a Cuba. Non è stato nascosto, come continuano sostenere Roccella e Morresi, ma comunicato a centinaia di persone, a riprova di come le infezioni da Clostridium siano sempre da tenere presente in ostetricia. Quello cubano è un caso in cui la RU486 non c’entra nulla.
Per quanto riguarda la morte per gravidanza extrauterina, la RU486 non è la responsabile, non essendo la RU486 che provoca la gravidanza. Al massimo vi è un errore di conduzione clinica in un caso misconosciuto di gravidanza extrauterina. Sebbene le gravidanze extrauterine siano temute, la mortalità è di 60 per 100.000, il trattamento medico è ormai in uso consolidato con un farmaco «off label», cioè senza autorizzazione, che da anni è somministrato negli ospedali italiani. Dopo la somministrazione le donne sono dimesse in attesa che la gravidanza si spenga e tornano in ospedale solo per dei controlli. Nessun ginecologo inserirebbe mai una morte per gravidanza extrauterina tra le morti per RU486.
Il punto forse è proprio questo. Leggendo gli articoli di Roccella e Morresi si deduce che il duo anti-RU486 non conosca le dinamiche dell’aborto e sia mal consigliato da medici che non fanno aborti. Solo così si spiegano la sottovalutazione dei sintomi e delle complicazioni dell’aborto chirurgico, da un lato, e le esagerazioni dei sintomi dell’aborto medico. Solo così si spiega come venga sottolineato negativamente che un terzo delle donne abbia bisogno di un antidolorifico per l’aborto medico, dimenticandosi che in quello chirurgico l’anestesia è somministrata al 100%. Solo così si spiega l’uso sproporzionato della parola emorragia. Solo così si può raccontare la favola dell’aborto che dura giorni, quando i sintomi sono legati alla prostaglandina (il farmaco del terzo giorno), mentre non ve ne sono dopo la Ru486 (il farmaco del primo giorno). I sintomi di fatto si limitano al periodo espulsivo, riducendosi subito dopo. Ovviamente, sempre, con le dovute eccezioni. Comunque, non è vero che l’aborto dura tre giorni o più.
D’altro canto, nell’aborto chirurgico le complicazioni tardive sono superiori a quelle che vengono rilevate nella scheda istat compilata al momento delle dimissioni. Il rischio di un secondo intervento è di almeno l’1%. Tornando all’elenco di morti, comunque venga allungato, esso implica un rischio minimo vicino a zero, che occorre non sottovalutare, ma che non può essere preso a pretesto per campagne antiabortiste contro la RU486. Nel Nord America il rischio di mortalità stimato per l’aborto medico è di 0,8-1 per 100.000, analogo a quello per aborto spontaneo. Quello per aborto chirurgico nelle prime settimane di gravidanza è di 0,1 per 100.000, mentre nelle settimane successive è analogo. Il tasso di mortalità aumenta peraltro con l’avanzare della gravidanza. Per confronto negli Stati Uniti il rischio di mortalità in gravidanza è di 10 per 100.000. In nessun settore delle attività umane un rischio di 1 per 100.000 costituisce una limitazione.
Dire che l’aborto medico ha un rischio di mortalità di dieci volte superiore a quello medico significa dire una cosa apparentemente vera in astratto, ma in pratica è come moltiplicare zero per dieci. Esattamente come se si dicesse che proseguire una gravidanza ha un rischio di mortalità di 10 e 100 volte superiore all’aborto, con il conseguente implicito paradossale suggerimento che sarebbe meglio abortire. Non sono argomenti di questo tipo che possono imporre una scelta al medico e alla donna, o che possano suggerire di vietare la RU486.
Appena sarà registrata, la «pillola abortiva» potrà essere utilizzata negli aborti terapeutici, riducendo i rischi connessi all’uso della sola prostaglandina, e negli aborti nelle prime settimane di gravidanza come alternativa all’aborto chirurgico.
La suggestione è alimentata dal fatto che è difficile avere un’esatta dimensione di un rischio, poiché molti fattori entrano in gioco nella sua percezione. Se, per esempio, si leggesse un ipotetico «bugiardino» dell’automobile con gli stessi criteri con i quali leggiamo quello dei farmaci, probabilmente non dovremmo più salirci sopra, ma il bisogno di spostarsi in auto ci fa sorvolare sui rischi dell’automobile. Se il rischio di mortalità del mifepristone è 1 per 100.000, quello del Viagra, è di 5 per 100.000 ricette, cioè maggiore, ma Roccella e Morresi non chiedono di proibire il Viagra. Come maggiori sono i rischi di morire in automobile e nella gravidanza a termine.
Il rischio per una donna di morire per la RU486 è uguale a quello di essere assassinata, cioè circa 1 su 100.000, ed è inferiore di solo 100 volte a quello di essere colpita da un fulmine, che è di 1 su 10.000.000. A Eugenia Roccella, ad Assuntina Morresi e ai loro emuli voglio dire che le storie delle donne morte per aborto sono sempre tragiche, come lo sono sempre quelle, purtroppo più numerose, delle donne che muoiono in gravidanza. Aggrapparsi a loro per vietare la Ru486 è disonesto ed ha il sapore di una mossa disperata, poiché allo stato attuale la RU486 non è un farmaco pericoloso e i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi.
* ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino

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