lunedì 3 marzo 2008

Marcovaldo, il papa e la lectio magistralis

l'Unità 3.3.08
Marcovaldo, il papa e la lectio magistralis
di Luigi Cancrini

Una mattina come tante Marcovaldo si trovava nella sua università. Era un’università prestigiosa che aveva ospitato grandi scienziati, grandi filosofi e grandi poeti. Era l’università di Federico Chabod e di Ungaretti. Quella mattina Marcovaldo venne a sapere che si stava organizzando una protesta contro il papa. "Il papa?", si chiese turbato, "Cosa mai aveva fatto il papa?" Gli dissero che si doveva armare di fischietto e quando quello passava doveva fischiare più forte che poteva. Marcovaldo si domandava il perchè di tutto quel baccano e iniziò a ricercare i motivi. Alla fine capì che il problema non poteva che essere l’occasione. Scopri così che il papa era stato invitato ad inaugurare l’anno accademico. "Cosa significava?"
Significava che era stato invitato niente popo’ di meno che dal magnifico rettore in persona a tenere una che aveva come studenti i professori che si trovavano nelle più alte cariche della gerarchia universitaria. Questa lezione tanto particolare aveva un nome altrettanto particolare: si chiamava lectio magistralis. "Con che titoli il papa veniva a sostenere una prestigiosa lezione universitaria?" I giorni passarono e le tv gozzovigliarono all’idea che al papa era stato impedito di parlare. Marcovaldo si sentiva davvero stupido. Era come se non riuscisse a fare lo stesso ragionamento di tv e telegiornali. Proprio non ci arrivava, sentiva sempre che se si metteva a ragionare e ad analizzare causa ed effetto gli veniva un risultato diverso. In fondo il papa era l’unica persona che avesse il diritto di parlare e dire la sua sui telegiornali nazionali tutti i giorni, alle più svariate ore. Per non parlare poi della messa la domenica mattina! Nessun professore, armato di mera conoscenza scientifica non rivelata, aveva lo stesso diritto. Eppure tutti gridavano alla censura. Censura che non c’era stata. Era stato Ratzinger stesso a decidere di non parlare. Studenti e professori volevano soltanto manifestare il loro disappunto al suo discorso; non vietargli di parlare, ma solo mettere in discussione. Quella sera Marcovaldo era stanco e triste. Si sentiva impotente. Decise, commettendo un grave errore, di accendere la tv. Lì, sul primo canale, c’era un insetto molto fastidioso, simile ad una vespa. Sosteneva che la Sapienza non era aperta al dialogo.
Lorenzo d’Orsi - Lulù Cancrini

Cara Lulù, caro Lorenzo, ho dovuto abbreviare la vostra lettera, e me ne dispiace, per ragioni di spazio. Pubblicarla mi è sembrato importante, però, perché introduce l’aria fresca della perplessità di Marcovaldo nel pieno di una campagna elettorale in cui così spesso di questo argomento si discute, del diritto del Papa a parlare e di uno Stato a sentirsi e ad essere laico. Riportando a dimensioni realistiche e ragionevoli un episodio di cui sicuramente si è parlato troppo: superando ampiamente i limiti dell’assurdo con una serie di discorsi, inutilmente passionali, sul Papa cui qualcuno avrebbe impedito di "parlare".
La linea forte della riflessione di Marcovaldo, che io condivido appieno, è quella, infatti, della collocazione esatta del fatto. Come più volte affermato da Cini e dagli altri professori che scrissero la famosa lettera, il problema non era quello della visita di Papa Ratzinger né quello della sua libertà di esprimere il suo pensiero nel corso della sua visita. Il problema era quello, reale, dell’idea voluta da qualcuno di riconoscergli un ruolo che non è il suo: quello di professore cui si riconosce, nell’Università che è o dovrebbe essere il tempio della scienza e della ricerca, una competenza non religiosa ma scientifica. Di primus inter pares a livello dei professori e dei ricercatori all’interno di una contingenza storica in cui più e più volte egli (Egli?) ha detto di ritenere che la scienza deve fermarsi al limite di una fede (Fede?) nel nome della quale lui (Lui?) solo è autorizzato a parlare. Nel nome di Dio e della Verità. Riconoscendo coi fatti nel momento in cui non gli si chiedeva una benedizione o un saluto ma una lectio magistralis che questa sua tesi era condivisa dai docenti dell’Ateneo, che la scienza deve essere pronta a chinare la testa nel momento in cui a parlare è la Chiesa. A Roma. Dove la Chiesa, come voi ben sapete, ha parlato da sempre un po’ troppo. Correva l’anno 1600 e narrano le cronache di come fu accompagnato a Roma, dalle segrete di Castel Sant’Angelo fino a Campo dei Fiori un grande scienziato e filosofo del tempo, Giordano Bruno. Uomo colto e versatile, autore di libri su cui ancora oggi studenti e professori faticano alla ricerca della verità, docente per anni e anni, all’interno di un faticoso e durissimo pellegrinaggio da perseguitato, in tutte le più importanti Università d’Europa, quest’uomo era considerato eretico dalla Chiesa del tempo ed era stato confrontato, nei giorni precedenti alla sua condanna, con il Cardinale Roberto Bellarmino. Allora come adesso, il Cardinale parlava (credeva, diceva di parlare) nel nome della Verità e della Fede, forte dell’appoggio del Papa. In modo diverso da adesso, la Chiesa poteva condannare al silenzio e alla morte gli scienziati che non si piegavano, pur avendo ragione, alla sua autorità. Bruciando i suoi libri e torturando con una morsa di ferro, la mordacchia, la sua lingua blasfema: per impedirgli anche di proferire parole ("infettando con le sue parole chi l’avesse incontrato") nel breve tragitto che avrebbe dovuto percorrere incontrando altri prima di arrivare al rogo già preparato per lui. E uccidendolo, alla fine, con la potenza di un fuoco purificatore tra le urla della folla e i canti dei religiosi. Definitivamente affermando, con la forza dei fatti, la superiorità della Fede sulla scienza di chi in modo laico riflette e fa ricerca. Episodio terribile, la morte di Giordano Bruno accrebbe la fama e l’importanza del suo accusatore. Un Papa di cui non so più il nome lo innalzò addirittura alla gloria degli altari e lo insignì del titolo di dottore della Chiesa. Senza pudore alcuno dedicando al suo nome, meno di un secolo fa, una Chiesa che dista poco più di un chilometro dall’Università in cui il Papa non ha tenuto, per fortuna di tutti, la sua lectio magistralis. Rendendosi responsabile, la Chiesa nel cui nome anche quell’altro Papa parlava di un orrore di cui i Papi successivi e quello di oggi nulla hanno saputo o voluto dire. Un orrore che potrebbe essere perdonato a questo Papa e alla Chiesa nel cui nome egli parla solo nel giorno in cui, al termine di una ricerca rigorosamente laica, decidesse di dedicare a Giordano Bruno e al suo amore per la verità la Chiesa dedicata oggi all’uomo, crudele e non molto dotato dal punto di vista culturale, che seppe zittirlo solo con la mordacchia e che arrivò a farlo bruciare vivo nella piazza più bella di questa nostra splendida città.

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