domenica 30 marzo 2008

Giuliano, l’aborto e la politica

l’Unità 30.3.08
Giuliano, l’aborto e la politica
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

Partiamo dall’ammissione di una inclinazione intellettuale: i temi di spessore etico, nel confronto politico, sono sovente quelli che più ci appassionano. Ci fanno osservare come l’opinione pubblica possa ancora essere percorsa da istanze forti, da confronti appassionati, tra opzioni legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Tuttavia, non ci sfugge come «politicizzare» talune questioni rischi di tradurne sostanza e argomenti, nel migliore dei casi, in alternative indecidibili: non perché la politica sia indifferente all’etica; piuttosto, perché i conflitti che il diritto è in grado di comporre possono rimanere eticamente inconciliabili, come ben ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere della Sera. Dunque, possono continuare a sollecitare il confronto e il conflitto politici, senza che la pretesa dell’affermazione del Bene trovi mai soluzione normativa.
La battaglia elettorale di Giuliano Ferrara in materia di aborto ha molto a che fare, per quanto ci riguarda, con tali contraddizioni. È evidente che il direttore de il Foglio condivida la stessa passione per la contesa intorno a grandi questioni morali; e che in questa si impegni, anche con coraggio, un po’ alla maniera di chi, allo speaker’s corner di Hyde Park, si erge su uno sgabello e dice la sua. Qui non discutiamo le sue argomentazioni etiche. Ci sarebbe molto, moltissimo da dire (e lo fa benissimo Adriano Sofri in “Contro Giuliano” Sellerio 2008). Bisognerebbe riconoscere talune ragioni e segnalare molte omissioni, e controbattere altrettanti torti. No: qui si discute dell’utilità (e della sostenibilità politica) di quanto Ferrara sta facendo. Ferrara dice di battersi contro l’indifferenza etica all’aborto. Sostiene che si tratta di un omicidio banalizzato a pratica contraccettiva; che la politica non fa nulla per ridurre il numero d’interruzioni di gravidanza; che la legge che regola la materia, in Italia, è applicata solo parzialmente e univocamente; che le donne sono lasciate sole, a fronteggiare i dilemmi della più grave piaga morale del nostro tempo; o che, alternativamente, sono lasciate sole in un lembo di pochezza morale, in cui interrompere la gestazione (uccidere il feto) diviene gesto banale e disimpegnato, estraneo a ogni considerazione sul valore della vita e sui diritti del nascituro. Ferrara sostiene anche che quell’omicidio non fa della donna che lo decide un’omicida; che non intende, con la sua battaglia, vietare per legge l’aborto. Ovvero, egli dice che quello che altri considerano un diritto (ma oggi chi lo considera un diritto? Fuori i nomi e i cognomi, please) deve rimanere facoltà e possibilità estrema; e che l’autorità pubblica deve intervenire, fin dove possibile e senza opporre divieti ultimi, per prevenire il concretizzarsi di quella facoltà in pratica abortiva.
In molti hanno già chiesto a Ferrara che senso abbia organizzare una lista, dunque proporre una rappresentanza parlamentare, avendo a riferimento della propria azione una norma vigente che si dice di non voler cambiare. Probabilmente, al suo promotore basta aver convocato l’attenzione e l’intelligenza di molti sulla questione che solleva; probabilmente considera di già una vittoria il «semplice» fatto di aver iscritto, nell’agenda dei temi dibattuti dalla politica e dalla cultura le sue (e con lui di altri) riflessioni sul valore della vita, sul concetto di «persona», sull’eugenetica, sulla qualità morale del nostro tempo. Tuttavia, una vittoria di questo genere (già rivendicata) ha il sapore - ci si perdoni - di una marachella; di un’astuzia (veniale, se si prendono per buoni gli argomenti di Ferrara e al peso di quelli la si commisura) che tale è e tale rimane, con tutto il suo portato di strumentalità. Come a dire: certo, fare una lista antiabortista per non cambiare (dobbiamo crederci? ma si, ci crediamo!) la 194 è cosa contraddittoria, apparentemente inutile; ma quell’offerta elettorale non ha volontà di incidere sul nostro ordinamento (e a che serve allora?), ma è un modo dirompente per far discutere di una questione importante. D’accordo, accettiamo anche questo argomento.
Ferrara vuole «mandare in Parlamento un gruppo di pressione che, su un tema centrale dell’esistenza moderna, abbia lo specifico mandato politico di promuovere la battaglia contro l’aborto e per la vita in tutto l’arco della sua manifestazione, che è cosa diversa dall’abrogazione delle leggi che oggi regolano l’interruzione di una gravidanza». Se ciò che gli sta a cuore fosse promuovere una serie di leggi di welfare mirate a scongiurare tutta quella quota di aborti dovuti a un deficit di tutela economica, sanitaria, occupazionale delle donne, noi ci iscriveremmo subito subito alla sua lista. Invece no, lo sappiamo ed è chiaro: Ferrara ha in odio la sciatteria morale di quella donna che abortisce per non ritrovarsi i glutei smagliati; che interrompe la gravidanza per l’ennesima volta, pur avendo mezzi economici ed emancipazione a sufficienza per praticare la contraccezione; che compie quel gesto senza avere contezza (senza affrontare un dramma morale intimo) del portato della sua decisione. Ed è su questo - principalmente - che insiste la sua azione politica. Su quelle forme di degrado morale e sulle cause, prossime e remote, complesse ed epocali, che quelle determinano. La politica può fare qualcosa per intervenire su tutto ciò? Qualcosa che non sia un comitato etico di riconoscimento della liceità morale psichica e sociale, oltre che sanitaria, per ogni istanza di aborto in ogni consultorio e in ogni ospedale? Ovvero: l’autorità pubblica, secondo Ferrara, dovrebbe avere modi e strumenti per indagare la coscienza individuale e le pieghe dell’esistenza degli individui, per decidere quando un aborto è motivato e quando invece non lo è? E in questo secondo caso cosa può fare? Vietare no, a quanto lo stesso Ferrara sostiene, e dunque? Biasimare formalmente la pochezza morale di talune donne? Impegnarsi in qualche pratica di moral suasion? Insomma: cosa produciamo sanzionando moralmente l’indifferenza etica all’aborto? Se si tratta di combattere la povertà spirituale del nostro tempo, beh, nessuna battaglia in questa direzione che assegni allo stato diritto e compito di limitare il libero arbitrio della persona potrai mai dirsi liberale. Se non è questo ciò a cui si mira - se la battaglia contro il degrado etico non passa per una revisione legislativa che renda più difficile abortire - non c’era bisogno di presentare una lista elettorale: non si va in Parlamento per far applicare le leggi (per far applicare in tutto il suo portato la 194); ci si va per farne di nuove o per modificarne di già esistenti. Poteva bastare, allora, scrivere, dibattere, informare, criticare. O impegnarsi, anche attraverso forme di azione volontaria, per promuovere le pratiche contraccettive, per accogliere più dignitosamente i migranti (già, sono le donne straniere, oggi, quelle che nel nostro paese abortiscono più frequentemente), per operare contrastando il disagio sociale di molte donne «istigate» all’aborto dalle persistenti iniquità di una società spesso eticamente agnostica. C’è chi, alcune (e solo alcune!) di queste cose già le fa; animato da una volontà di contrasto del «peccato» che si traduce, ancora una volta, in un giudizio morale sull’autodeterminazione della donna che sappiamo essere inesorabile. No: non fa bene a chi non vuole essere madre, a chi vorrebbe esserlo ma sente di non poterlo; e a chi deve ancora nascere.Scrivere a:
abuondiritto@abuondiritto.it

sabato 29 marzo 2008

Eugenetica alla rovescia

l’Unità 29.3.08
Eugenetica alla rovescia
di Sergio Bartolommei

La scelta del Cnb

Il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso, a maggioranza, per l’obbligo dei medici di rianimare feti nati vitali, indipendentemente dal periodo di gestazione e anche contro la volontà dei genitori. La decisione suscita sul piano etico forti perplessità, per almeno due ragioni. La prima riguarda i casi di aborto terapeutico, in cui il medico non può ignorare che la volontà della donna era di interrompere la gravidanza. È vero che la legge fa obbligo di rianimare il feto nato vitale, come si trattasse di una "persona" con diritto alla vita. Ma non si può dire che, perché la tecnica ha abbassato il limite della mera vitalità, sia etico costringere a essere madre di un futuro individuo malformato una donna che, a queste condizioni, madre non intendeva affatto diventare. La tecnica crea qui un nuovo dilemma e compito di un Cnb è riflettere sui dilemmi morali. Prescindere dal consenso della donna con l'appello autoritario alla legge è un modo di risolvere i problemi tagliando i nodi anziché cercare di scioglierli.
La seconda ragione riguarda proprio la previsione di gravi e gravissime malformazioni dei grandi prematuri. Secondo dati recenti, il feto di 22 settimane raramente reagisce alle cure intensive e muore. A 23 settimane si registra una sopravvivenza del 32% circa dei feti, e di questi l’80% presenterà gravi o gravissime disfunzioni neurologiche. Alla 24esima settimana la sopravvivenza passa al 60% con il 40% dei sopravvissuti che avrà danni analoghi. Anche se tali previsioni non possono confidare, come peraltro tutti gli atti medici, sulla certezza assoluta, l’incertezza non giustifica la decisione di rianimare sempre e comunque. L’incertezza, di per sé, giustifica solo riflettere, caso per caso, se ostinarsi a rianimare o optare per cure confortevoli che accompagnino alla morte i neonati fortemente pre-termine. Un’etica che stabilisse il dovere incondizionato di rianimare già a partire da 22 settimane rischierebbe di introdurre una intollerabile forma di eugenetica alla rovescia. In nome di una astratta “cultura della vita” legittimerebbe l’obbligo istituzionale di portare all’esistenza individui che, presentando alti rischi di gravi malformazioni e patologie, conosceranno vite contrassegnate da acuti disagi, dolori e sofferenze.
Il Cnb replica che, a meno che non si accetti di interrompere l’assistenza a tutti i disabili qualunque sia la loro età anagrafica, non è lecito interrompere o non iniziare trattamenti ad alcuni prematuri solo per evitare futuri handicap. Ci pare tuttavia che una decisione non implichi l’altra. Una cosa infatti è impegnarsi a mitigare e correggere i colpi della sorte ai disabili già nati; altra cosa è istituire l’obbligo di portare all'esistenza individui con probabili gravissime disabilità. Questa seconda scelta si avvicina al danneggiare intenzionalmente le persone dando loro il peggiore avvio possibile alla vita.
La “cultura della vita” non è “feticismo della vita” e non può essere la vuota “possibilità di sopravvivenza” dei grandi prematuri, come chiede il Cnb, a fungere da criterio per questo delicato tipo di scelte.

La bioetica e il mondo laico - Carta di Firenze, per una medicina senza accanimento

l’Unità 29.3.08
Come avviene in altri Paesi anche in Italia è stato preparato un documento per guidare medici, genitori e giudici nelle situazioni difficili
Carta di Firenze, per una medicina senza accanimento
La bioetica e il mondo laico
di Maria Serenella Pignotti

Il testo è noto anche all’estero e si basa sui dati acquisiti dalla scienza
Abbiamo voluto porre dei limiti all’accanimento proprio come avviene in tutti i Paesi civili

La Carta di Firenze nasce da un lungo lavoro svolto attraverso varie fasi, che ha ricevuto il consenso di molti medici impegnati ogni giorno sul campo. Non è nata in quattro e quattrotto, da pochi ispirati e non si discosta da analoghi documenti pubblicati in tutto il mondo. Non si discosta, soprattutto, dalle raccomandazioni per la rianimazione in sala parto dell’Ilcor, la massima organizzazione internazionale di esperti che suggerisce le cure palliative sotto le 23 settimane, la rianimazione a 25, un’attenta aderenza ai desideri dei genitori nelle due settimane intermedie, le 23 e le 24: la cosiddetta “zona grigia”, zona nella quale l’appropriatezza dell’intervento aggressivo medico è così discutibile e priva di evidenze scientifiche che diventa preponderante il volere dei genitori, sia che essi chiedano o non consentano le cure intensive. Il negare l’indicazione che l’età gestazionale (Eg) offre nella valutazione della prognosi, significa perdere l’unico parametro significativo per la sopravvivenza e quindi sottoporre a cure inutile e dolorose quanti non hanno il biglietto d’ingresso per la vita extrauterina: tutti quei feti/neonati che presenteranno segni di vita alla nascita, ma segni della vita intrauterina che si sta spengendo, non di una possibile vita extrauterina.
Quello della diagnosi differenziale alla nascita è un capitolo della medicina estremamente difficile, non vi è dubbio. È difficile distinguere tra meri segni di vita e segni di vita suscettibili di rianimazione, preludio di una vita extrauterina. Ma farlo costituisce uno dei doveri del medico. I medici non vogliono uccidere bambini, vogliono solo curarli bene, e curarli bene tutti, anche quelli che moriranno. È più semplice rianimare tutti e comparire sui giornali coi bambini del miracolo, pubblicare nuovi dati e sperimentazioni. Molto più difficile è prendersi la responsabilità di giudicare un intervento come inutile e non intraprendere o interrompere un trattamento per cambiare programma verso le cure palliative.
Con la Carta di Firenze abbiamo chiesto aiuto, abbiamo voluto dire alla società la verità, altro dovere di un medico, affinché si smetta di credere nelle favole e nelle bugie e si offrano le cure migliori concretamente possibili. Abbiamo voluto porre dei limiti all’accanimento ed alla sperimentazione, esattamente come hanno fatto tutti i Paesi civili del mondo. Abbiamo voluto difendere i bambini da cure sproporzionate ed abbracciare i genitori di quelli che non ce la faranno, abbiamo voluto difendere i medici da accuse senza senso nei Tribunali. La Carta di Firenze rappresenta anche un esempio di lavoro di gruppo, multidisciplinare, che non ha eguali. E si è già espressa. È già conosciuta, in Italia come all’estero. Essa è basata sui dati acquisiti dalla scienza e dalla sensibilità umana. Le critiche mosse, affidate ad analisi astratte e, soprattutto, saltando a piè pari i genitori - unico Paese al mondo - non aggiungono nulla di nuovo. Per questo la Carta rimane come un documento fondamentale a cui, nelle situazioni di rischio, medici, genitori e giudici potranno ispirarsi, esattamente come all’estero. Per curare una creatura così piccola e così delicata, non ci si può affidare, magari nottetempo al primo medico che capita desideroso di sperimentare terapie mai validate. Ci vuole una medicina basata sull’evidenza, moderna, fatta di conoscenze, dati supportati dalla ricerca internazionale, una medicina basata sui fondamentali principi di etica medica che vogliono per tutti cure appropriate e non sfarfallii di speranze senza senso, fonte di dolore per il bambino e per la sua famiglia.

Prematuri, il vero obiettivo è la 194

l’Unità 29.3.08
Prematuri, il vero obiettivo è la 194
di Carlo Flamigni

PER RIAFFERMARE la «sacralità della vita» il Cnb ha votato un documento che di fatto esclude i genitori nelle decisioni che riguardano l’eventuale rianimazione dei neonati molto precoci

La decisione del Cnb di criticare quel testo è una scelta sbagliata

La Carta di Firenze aiuta a capire come comportarsi nel caso di feti molto prematuri

Il documento della maggioranza del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) sulla rianimazione dei neonati precoci nasce con l’intento di estendere la dittatura dell’embrione anche al feto. La microetica delle quattro cellule, lo sappiamo, ha uno scarso impatto sulla gente, a meno che non la si corredi di qualche fiorita invenzione, come quella che nel passato immaginava la possibilità di acchiappare gli animaluncoli trasportati dal vento con qualche mirabolante setaccio. Impressionare gli ingenui trasportando la questione sul feto ha migliori possibilità di successo: e così ci hanno riprovato. Il Cnb comincia criticando la Carta di Firenze, accusata di istituzionalizzare l’abbandono terapeutico dei feti nati alla 22ma e alla 23ma settimana (il documento parla di una aprioristica decisione di desistenza terapeutica). In realtà non è così, la Carta di Firenze afferma che «ogni decisione deve essere individualizzata» e semmai invita a riflettere circa le gravi conseguenze che certi interventi della tecnologia possono avere. È, dunque, un’accusa senza alcun fondamento, che rivela come si voglia, ancora una volta, accuratamente evitare l’oggetto vero del contendere: si tratta di sapere se valga il carattere esclusivo della sacralità della vita come vogliono i cattolici più dogmatici o invece il carattere della sua qualità per tutti gli altri, punto che si concreta nel sapere cosa significhi restituire a una famiglia un figlio con le qualità cognitive di una pianta o con l’impossibilità di godere di un solo minuto di felicità. Per riaffermare la sacralità della vita, il documento della maggioranza del Cnb esclude il coinvolgimento dei genitori nel processo decisionale al riguardo, perché la loro voce introdurrebbe «parametri di valutazione estranei alla questione bioetica decisiva»: in caso di dissenso, dovrebbe essere sempre l'opinione del medico a prevalere. Per una minoranza del Cnb (Flamigni, Guidoni, Mancina, Neri, Toraldo di Francia, Zuffa), invece, la volontà dei genitori dovrebbe essere sempre prevalente, per molte ragioni ovvie. In primis perché grande parte di questi trattamenti sono ancora sperimentali e incerti, per cui non possono neppur essere iniziati senza il consenso informato dei genitori. Ridurli al silenzio è violare un sacrosanto diritto. Inoltre, perché sono i genitori che devono valutare le gioie e le sofferenze causate dalle terapie e dalla crescita del nato.
L’esclusione dei genitori da parte della maggioranza del Cnb è così incredibile che la si può spiegare solo come reiterato attacco alla legge 194. La medicina è cambiata, si dice. È possibile quindi che un feto abortito perché portatore di malformazioni risulti invece vitale, per cui deve necessariamente essere rianimato. I progressi della medicina impongono di cambiare le regole, di modificare la legge.
Sciocchezze. Il ragionamento non funziona perché la legge 194, nella parte che riguarda le interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno, dice chiaramente che se il medico ritiene che esistano possibilità di vita spontanea per il feto, la gravidanza può essere interrotta solo quando mette a repentaglio la vita della madre, la condizione di necessità che fa tacere tutte le altre norme e che era valida persino ai tempi delle vecchie leggi fasciste. Plaudo dunque alla tenacia, non certo alla intelligenza di questo ennesimo tentativo di attaccare la 194.

venerdì 28 marzo 2008

II confronto si aprirà sul testamento biologico

II confronto si aprirà sul testamento biologico

Liberal del 28 marzo 2008, pag. 9

di Riccardo Paradisi

Professore associato di etica alla facoltà di filosofia di Roma la Sapienza, editorialista del quotidiano il Riformista Claudia Mancina si occupa da anni di temi bioetici e fa parte del Comitato nazionale di bioetica. Con lei proseguiamo il viaggio che liberal sta facendo dentro questa dimensione rimossa dalla politica italiana.

Professoressa Mancina è d'accordo sul fatto che i temi bioetica siano i grandi assenti di questa campagna elettorale?

Che ci sia una specie di silenziatore sulle questioni bioetiche è in parte vero. Il centrosinistra le evita perché il Partito democratico è il frutto di un'alleanza recente che ancora non si è del rutto stabilizzata tra cattolici e sinistra e che ha bisogno di tempo per far crescere un confronto e maturare una sintesi su questi temi. Ma oltre a questo c'è un altro elemento la presenza di una lista, quella di Giuliano Ferrara, che ha estremizzato le posizioni, le ha talmente drammatizzate da rendere impossibile un dibattito politico costruttivo su questi temi. Lo stesso Berlusconi si è ritirato da una possibilità di alleanza con la lista di Ferrara.

Lei ha detto che nel Pd si prende tempo per affrontare politicamente i temi bioetica, però i temi bioetici aprono dialettiche interne molto forti dentro il centrosinistra.

Questo è accaduto soprattutto alla fine della legislatura ma non mi sembra stia accadendo anche in questa campagna elettorale. E comunque io ho criticato il fatto che durante le primarie del Pd non si siano affrontati temi bioetici. Anche se sarebbe ingiusto accusare Veltroni di reticenza: aprendo il Pd ai radicali ha fatto una scelta audace che gli è costato lo scontento e il dissidio dei cattolici.

A proposito di dissidi quali saranno i primi temi eticamente sensibili a far emergere le divisioni che su questi temi attraversano orizzontalmente gli schieramenti politici?

Non la legge 194 per fortuna. Infatti per la prima volta dopo 30 anni nessuno mette in discussione questa legge. Nemmeno Giuliano Ferrara. E questo è un fatto, mi permetta di dire, importante. Ci saranno tensioni probabilmente quando ci si dovrà confrontare con iniziative legislative sul tema del testamento biologico.

A proposito di legge 194 la presidente dell'associazione Scienza e vita Maria Luisa Di Pietro ha detto a liberai che non si riesce a capire per quale motivo gli stessi che ritengono quella sull'aborto una legge immodificabile vogliano assolutamente mettere mano alla legge 40 che è molto più recente. Sinceramente trovo abbastanza peregrina la comparazione tra legge 40 e 194. Il principale argomento a favore della 194 è che questa legge ha operato bene per 30 anni, il principale argomento contro la legge 40 è che è una legge inapplicabile perché rende impossibile la procreazione assistita, costringendo

le persone ad andare all'estero.

Nel referendum a cui lei accenna era anche presente la questione di libertà di ricerca sugli embrioni. Anche in questo caso la bioetica, come la società e la comunità degli scienziati, è divisa sullo statuto dell'embrione.

Il risultato è l'interruzione di ogni sperimentazione. Ora, può darsi che la ricerca internazionale arrivi a considerare valida e proficua la ricerca sulle cellule staminali adulte e ne saremmo tutti felici credo, però il fatto che per una proibizione a priori agli scienziati non venga lasciato un margine per verificare altre strade è un grave ostacolo che si frappone alla ricerca scientifica. Proibizione che si estende anche alla ricerca gli embrioni soprannumerari e criocongelati che verranno comunque distrutti.

C'è chi dice però che non è possibile verificare la morte di quegli embrioni. Che non c'è un certificato di morte per l'embrione.

Non c'è un certificato di morte perché l'embrione non ha nemmeno un certificato di nascita. Vede c'è molta differenza tra l'approccio di chi pensa di dover resistere sulle sue posizioni fino all'ultimo con le armi in mano e quello di chi invece cerca di ragionare.

Su eutanasia testamento biologico le posizioni cattoliche sono fermamente contrarie.

Certo ma stiamo attenti a non confondere eutanasia e testamento biologico. Sono cose diverse. E poi nessuno propone l'eutanasia in questo Paese. Le proposte in discussione sono sul testamento biologico, sul rifiuto dell'accanimento terapeutico. L'eutanasia è un'altra cosa e c'è solo in tre Paesi europei. Tra questi non c'è l'Italia.

C'è invece chi teme anche per l'Italia una "deriva zapaterista" come l'ha definita su liberal Francesco D'Agostino.

Mi sentirei di tranquillizzare D'Agostino. Quelli che guardano alla Spagna come modello infatti sono delle piccole minoranze. Persino le associazioni omosessuali italiane si limitano a chiedere le unioni civili, in vigore in 18 Paesi europei, non hanno mai avanzato richieste sulle adozioni, che non troverebbero peraltro maggioranze disposte a favorirle. Detto questo non accorgersi che anche in Italia - dove semmai il rischio è un eccesso di subalternità all'etica cattolica - la famiglia è cambiata mi sembra miope. Un'ultima cosa: parlare di "derive" a proposito delle politiche di Zapatero non mi sembra corretto visto che le scelte di Zapatero sono state confermate da un altissimo numero di spagnoli.

Subaltemità all'etica cattolica lei dice. C'è un'eccesso di ingerenza della Chiesa nelle questioni politiche italiane secondo lei?

Personalmente sono sempre stata contraria a queste accuse di ingerenza che spesso sono generiche e poco centrate. Si parla di ingerenze quando il Papa fa un discorso ma è evidente che il papa ha il diritto e il dovere di esprimere il punto di vista della chiesa. Credo piuttosto che esista un problema di eccessiva politicizzazione della conferenza episcopale. Mi preoccupano le indicazioni politiche che vengono date ai politici da questo organismo in un momento peraltro in cui la politica è molto debole. Una politica con soggetti politici forti sarebbe molto meno esposta a pressioni e molto più aperta al dialogo. Se da queste elezioni o dalla prossima riforma elettorale uscirà un sistema politico più robusto questo potrà dare origine a una stagione di maggiore equilibrio anche nei rapporti tra mondo cattolico e mondo politico.

martedì 25 marzo 2008

Eutanasia, non perdiamo altro tempo, Fino a quando il problema verrà eluso?

Eutanasia, non perdiamo altro tempo
La Lettera. Nell’ultima legislatura non è stato neppure possibile avviare un’indagine. Fino a quando il problema verrà eluso?

L'Unità del 22 marzo 2008, pag. 26

Due notizie: la prima dalla Francia, la morte di Chantal Sebire, l`altra dal Belgio quella dello scrittore Hugo Claus, ripropongono le questioni del diritto ad una vita dignitosa e ad una morte senza atroci sofferenze. Il ministro Bernard Kouchner, il fondatore di "Medici senza frontiere", ha inutilmente chiesto che si "aprisse una porta" per consentire a Chantal, da anni ammalata di un raro tumore che le ha reso la vita un calvario, di potersene andare con il conforto dell’amore dei suoi familiari; e le si potesse evitare "un suicidio nascosto".

Quel "suicidio nascosto" che è stato risparmiato a Hugo Class: perché il Belgio, con il Lussemburgo e l’Olanda, è uno dei paesi europei dove ad una persona è riconosciuto il diritto di andarsene, se lo chiede, senza dover patire lo strazio di un inutile dolore.

È un tema lacerante e controverso, come laceranti e controversi sono tutti i temi che riguardano direttamente le questioni legate alla vita e alla morte. Vanno rispettate tutte le opinioni, le credenze, i valori di cui ognuno si fa portavoce. Ma chiedo a tutti, a me stessa innanzitutto, non è , non potrebbe essere una buona base di partenza per una riflessione che non sia orbata dall’ideologia, il pacato argomentare di Umberto Veronesi: "L'eutanasia è un problema che esiste, e le leggi non danno nessuno spazio a questo argomento. Come medico ho il compito di prolungare al massimo la vita e come cittadino rilevo che il problema invece esiste. Tanto vale parlarne e non considerarlo un tabù".

Si può, ripeto, partire da qui? Accade - è innegabile - che migliaia di persone, si trovino barbaramente sequestrate, prive di vita e di morte, in corpi che non riconoscono più. C’è chi - e sono tra questi - ritiene che renderli all’umanità sia un’urgenza anche civile; una facoltà che, chi vuole, deve poter esercitare. Ripeto: facoltà, non obbligo, di cui ci si può avvalere in scienza e coscienza. Si tratta di rispettare la volontà di chi non ha più nulla da curare, da lenire, e ritiene che non ci sia più nulla da mantenere in vita se non alcuni organi da mantenere in funzione a prezzo di infinite sofferenze che non ritiene più di essere in condizione di sopportare.

Voglio ricordare quanto emergeva da uno studio della Fondazione Floriani di ben otto anni fa: su 386 medici che operavano nel campo delle cure palliative (sui 680 contattati) il 39% aveva ricevuto richieste dai propri pazienti in stadio terminale (tutti assistiti a domicilio), per essere aiutati a morire. Di questi malati, 16 erano riusciti a ottenere l’assistenza per la dolce morte, il 4% del totale. Dallo studio emergeva che si trattava di situazioni in cui il medico è intervenuto direttamente somministrando al paziente un farmaco che ha interrotto la sofferenza. Un paio d’anni dopo, un’altra indagine, condotta dai ricercatori di bioetica dell’Università Cattolica di Milano in venti ospedali della città, sull’eutanasia attiva e passiva. L’80% ha ammesso di aver staccato la spina. Un questionario particolareggiato, di oltre cento domande, è stato sottoposto a 259 rianimatori: il 3,6% ha dichiarato di avere volontariamente somministrato farmaci letali.

Altri studi e ricerche potrebbero essere citati. Come i sondaggi demoscopici che certificano che la maggioranza dell’opinione pubblica ritiene - una volta accertata l’inutilità di un accanirsi in una cura che non lascia speranza, e quando l’interessato lo chiede - che debba essere concessa la facoltà di poter chiedere l’interruzione del dolore. E ancora una volta è il mondo della politica a non saper e voler comprendere quello che invece è chiaro ed evidente a tutti. Nella passata legislatura non è stato neppure possibile avviare una indagine conoscitiva sul fenomeno della eutanasia clandestina.

Quanti sono, in Italia, i casi come quelli di Chantal Sebire? E perché deve esser loro negata la possibilità di cui ha beneficiato Hugo Class? Fino a quando si preferirà eludere questi problemi, invece di cercare di "governarli"?

Maria Antonietta Farina Coscioni

Presidente di Radicali Italiani e Co-Presidente dell`Associazione Luca Coscioni

Aborto, testamento biologico, due temi per una battaglia di civiltà. Come si decide della propria vita

La Repubblica 25.3.08
Aborto, testamento biologico, due temi per una battaglia di civiltà. Come si decide della propria vita
di Ignazio Marino

"Qual è l´obiettivo della moratoria proposta da Ferrara: rendere illegale l´interruzione volontaria di gravidanza sarebbe un gravissimo errore"

Nell´intervenire sul recente dibattito scatenato dalla proposta di Ferrara di una moratoria sull´aborto devo necessariamente fare ricorso alla mia esperienza personale di medico. Anche se la mia specializzazione, la chirurgia dei trapianti, non ha direttamente a che fare con l´ostetricia e la ginecologia, quando, da studente e poi da giovane medico, frequentavo il pronto soccorso del policlinico universitario dove studiavo (...) ho visto morire donne per emorragia o per l´infezione che seguiva all´aborto clandestino. Ho visto negli stessi anni anche delle giovani ragazze, che avevano maggiori possibilità economiche, rivolgersi a una casa di cura romana, Villa Gina, tristemente famosa per gli aborti clandestini, e altre forse ancora più benestanti che, invece, si recavano a Londra, perché in Inghilterra esisteva già una legge sull´aborto. Quindi io credo – e su questo mi sono confrontato anche con persone di fede e con visioni della vita differenti – che uno Stato laico debba necessariamente avere una legge sull´aborto. Anche il cardinal Martini, in un dialogo pubblicato sull´Espresso nell´aprile del 2006, ha affermato che uno Stato laico non può non avere una legge sull´aborto e che la questione di coscienza è diversa rispetto alla legislazione di uno Stato laico.
Le prime a soffrire profondamente di fronte all´aborto sono proprio le donne che si trovano ad affrontare nella loro vita un momento così difficile e drammatico, e certamente né Giuliano Ferrara né io né altri uomini possiamo anche solo lontanamente immaginare la sofferenza e il dolore, fisici e psicologici, che un evento di quella natura possa portare nella vita di una donna. E, d´altra parte, penso che in un mondo ideale l´aborto (intendo dire l´interruzione volontaria di gravidanza, che ovviamente è cosa diversa dall´aborto terapeutico) non dovrebbe esistere. Devo affermare però che questa idea della moratoria nei confronti dell´aborto mi lascia molto confuso e mi chiedo: qual è l´obiettivo di questa moratoria? È, forse, quello di rendere illegale l´interruzione volontaria di gravidanza e quindi tornare all´aborto clandestino? Forse non sono così intelligente da capire qual è l´obiettivo finale, ma certamente, se fosse quello di abolire una legge equilibrata come la 194 dalla giurisprudenza del nostro paese, sarebbe un gravissimo errore.
Non sono però d´accordo con la proposta, lanciata proprio dalle pagine di MicroMega, di abolire l´obiezione di coscienza sull´aborto. Chi crede in una vita che supera la nostra condizione materiale, nei confronti dell´embrione riterrà giusto il principio di precauzione. E uno Stato laico deve rispettare questa posizione ed è anche per questo che la legge 194 è una legge equilibrata. Una situazione molto diversa è invece quella dell´obiezione di coscienza nei confronti del testamento biologico, dove, al di là di qualunque convinzione basata sui propri ragionamenti o sulla propria fede, si tratta di rispettare, o non rispettare, le indicazioni date da un individuo esclusivamente su se stesso. In questo caso, quindi, non si ha a che fare con un altro individuo. (...)
Se noi non abbiamo oggi una legge sul testamento biologico non è stato solo a causa della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra, ma anche a causa delle divisioni che ci sono state su questo argomento all´interno della coalizione di governo. Io sinceramene non ho ancora capito se chi sostiene che la legge sul testamento biologico può diventare un piano inclinato verso l´eutanasia non è capace di leggere il testo e di capire effettivamente quali sono le sue implicazioni, oppure se vuole sostenere ad arte che quella legge possa portare a dei risultati che invece proprio essa stessa contrasta.
Io sono personalmente contro l´eutanasia. Nel maggio del 2000 – molti lo ricorderanno – mi venne chiesto di entrare in sala operatoria per dividere i corpi di due sfortunate gemelle siamesi, due persone che riconoscevano la madre, due individui da ogni punto di vista anche se condividevano il cuore e il fegato. Io capivo che decidendo di uccidere una di esse si poteva tentare di salvare l´altra, ma mi resi assolutamente indisponibile perché non ho studiato medicina per poi usare le mie competenze per uccidere una persona, anche se l´obiettivo può essere compassionevole. Quella che ho proposto è invece una legge per dare la possibilità, soltanto a chi lo vuole, di fornire delle indicazioni sulle terapie che ritiene accettabili, indicazioni che valgano anche nel momento in cui una persona non si può più esprimere. Esattamente quello che ogni cittadino può fare, sulla base dell´articolo 32 della Costituzione, quando entra in un ospedale e firma il consenso informato. Se un cittadino che deve fare una gastroscopia dice: «io non voglio un tubo che mi entri dalla bocca, mi scenda giù per l´esofago e arrivi nel mio stomaco», nessuno potrà obbligarlo a sottoporsi alla gastroscopia. Per quale motivo, invece, su una persona che non ha più nessuna possibilità di recupero dell´integrità intellettiva deve esistere la possibilità di fare qualunque cosa, a prescindere dalla volontà espressa in precedenza da quell´individuo? Questo è il vero punto di discriminazione.

La Chiesa e il crimine della pedofilia: anche per il nostro Paese è il momento della verità

L’Unità 25.3.08
Dopo «Sex, crimes and Vatican», documentario Bbc, e in attesa del processo a don Gelmini, Vania Lucia Gaito raccoglie in un libro le voci delle vittime
La Chiesa e il crimine della pedofilia: anche per il nostro Paese è il momento della verità
di Emiliano Sbaraglia

«Crimen sollicitationis» è la direttiva che dal ‘62 ha tacitato lo scandalo

Ricostruzione molte volte esemplare attenta ai gesti alle parole all’ambiente

Dal 13 marzo è in libreria Viaggio nel silenzio. I preti pedofili e le colpe della Chiesa (chiarelettere, pp.273, €13), un’inchiesta che colpisce cuore e stomaco del lettore, scritta da Vania Lucia Gaito, collaboratrice del blog di controinformazione «Bispensiero» per il quale, nel maggio del 2007, ha sottotitolato il documentario trasmesso per la prima volta dalla Bbc dal titolo Sex, Crimes and Vatican, al centro di una infuocata puntata di Anno Zero sul tema della pedofilia negli ambienti e tra i rappresentanti del mondo cattolico. Un dramma sociale, oltre che etico e morale, che ora questo libro colloca senza vie di fuga anche nel nostro paese, toccato nel profondo attraverso una serie di testimonianze dirette aumentate in maniera esponenziale in questo ultimo anno.
La realtà dei fatti è stata tenuta nascosta dal Vaticano per decenni, grazie soprattutto allo strumento del Crimen sollicitationis, documento scritto in latino, dunque destinato in primis soltanto agli «addetti ai lavori» (come nelle migliori abitudini della peggiore tradizione ecclesiastica) attraverso il quale, a partire dal 1962, le autorità ecclesiastiche recapitano ai vescovi di tutto il mondo una sorta di vademecum, con l’intento di non rendere pubbliche notizie e informazioni che potrebbero mettere sotto accusa di pedofilia preti e altre categorie clericali, almeno fino a quando ad indagare non sia stata per prima la Chiesa stessa; di questo documento, per circa vent’annim si è principalmente occupato l’allora cardinale Ratzinger, verificandone il funzionamento e il rispetto da parte dei vescovi dei dettami in esso contenuti.
Qualcosa sembra si stia finalmente muovendo in direzione della scoperta di molte verità sinora occultate, e una dimostrazione ne è anche la pubblicazione di questo volume, che raccoglie con impressionante meticolosità le voci le storie di coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di superare paure e rimozioni più o meno volontarie, per raccontare i particolari agghiaccianti di vite per sempre segnate da terribili esperienze, fisiche e psicologiche.
Pescando nel torbido bosco delle numerosissime testimonianze contenute nel libro, si incontra tra le altre la vicenda che ha coinvolto Don Gelmini, tornata alla ribalta delle cronache nazionali pochi mesi fa. A proposito della quale si ricordano anche le strenue difese che alcuni organi di informazione hanno ospitato, come quella di Vittorio Messori, che su La Stampa dell’undici agosto scorso non aveva remore nello scrivere frasi di questo tenore: «E allora? Se Don Gelmini avesse toccato qualche ragazzo? E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia?» (p.44).
In questa Italia così tanto impegnata a difendere i valori della vita sin dal suo concepimento, forse sarebbe il caso di porre una certa attenzione e impegnarsi con la stessa solerzia anche a difesa della sorte di tanti bambini e adolescenti, colpiti e violentati nel corpo e nella mente da chi del loro corpo e della loro mente dovrebbe occuparsi in ben altro modo.
Una battaglia tanto sofferta quanto complessa, che il lavoro di Vania Lucia Gaito dimostra essere non più rinviabile a data da destinarsi.

domenica 23 marzo 2008

Don Cantini, al vaglio le decime i soldi dei parrocchiani al prete

la Repubblica Firenze 23.3.08
Un anno fa Repubblica rivelò lo scandalo degli abusi in parrocchia
Don Cantini, al vaglio le decime i soldi dei parrocchiani al prete
Dopo trent'anni di silenzio decine di testimoni hanno raccontato quello che succedeva
di Franca Selvatici

PER trenta anni era rimasto avvolto nell´ombra, protetto dal silenzio, dalla vergogna e dell´omertà. L´8 aprile 2007, domenica di Pasqua, lo scandalo degli abusi nella parrocchia fiorentina della Regina della Pace divenne pubblico sulle pagine del nostro giornale. Un anno più tardi, una Pasqua dopo, tutto risulta confermato: sia le rivelazioni delle ex parrocchiane ed ex parrocchiani della Regina della Pace sulle violenze e le perversioni di don Lelio Cantini, sia il racconto del giovane commerciante gay Paolo Chiassoni sulla notte sadomaso trascorsa anni fa in una canonica in compagnia di alcuni sacerdoti e di un alto prelato, da lui riconosciuto nel vescovo ausiliario di Firenze Claudio Maniago, allievo prediletto di don Cantini.
Un anno più tardi l´inchiesta del pm Paolo Canessa non si è fermata. Gli abusi raccontati dai numerosi testimoni sono gravissimi ma risalgono a 20-30 anni fa e dunque sono coperti dalla prescrizione. Alcune ex parrocchiane hanno subìto atti sessuali a 11-12 anni e sono state segnate per sempre. Talvolta il sacerdote imponeva rapporti orali dopo la confessione, simulando di offrire l´ostia benedetta: condotte che, a norma di diritto canonico, comportano la scomunica. Una delle vittime è ancora oggi, a 40 anni, sotto cure psichiatriche, vive nel terrore e non può fare a meno di assumere psicofarmaci. A ogni ragazzina o ragazza costretta a subire gli abusi, il sacerdote faceva credere che fosse «la sua prediletta». Solo molti anni più tardi, ormai adulte, hanno scoperto che il loro parroco aveva abusato di molte di loro, e (secondo alcune) anche di qualche ragazzo. I loro racconti (il pm ha ascoltato decine di testimoni) hanno disegnato un quadro estremamente inquietante, dal quale don Lelio Cantini - il priore rigido, autoritario e sessuofobo al punto di vietare alle sue giovani parrocchiane di indossare i jeans - emerge come un abusante compulsivo. Con la conseguenza che tutti i giovani e i giovanissimi che hanno frequentato la Regina della Pace anche in anni più recenti sono stati potenzialmente esposti al rischio di abusi. Le indagini, perciò, si sono spostate in avanti, agli ultimi anni in cui don Lelio ha retto la parrocchia.
L´inchiesta prosegue anche sul fronte patrimoniale. Alcune ex parrocchiane hanno raccontato di aver consegnato al priore per anni la «decima» (cioè un decimo del loro stipendio). Le elemosine venivano depositate in banca, alcune famiglie furono indotte a privarsi di beni ereditati e delle loro case di proprietà in favore della parrocchia. Dove sono finiti tutti quei beni che, secondo il sacerdote, erano destinati alla costruzione di una «vera chiesa», una chiesa parallela?
La testimonianza del giovane gay Paolo Chiassoni ha ampliato i fronti dell´indagine al vescovo Claudio Maniago, l´allievo più brillante di don Cantini. Chiassoni raccontò di essere fuggito dalla canonica dopo la notte sadomaso, di essere stato contattato altre volte dai sacerdoti che aveva conosciuto e di aver accettato quella che loro definivano un´offerta, forse per garantirsi il suo silenzio: tre milioni di lire bonificati su un suo conto a Iesi, nelle Marche. I carabinieri hanno rintracciato il bonifico, che risulta provenire dal conto di una parrocchia. E´ stato accertato anche che accanto alla chiesa che ospitò gli incontri sadomaso c´erano una colonia estiva per disabili e un centro di accoglienza per tossicodipendenti.

venerdì 21 marzo 2008

Villa Serena nella bufera La prova degli aborti nei rifiuti della clinica Suore nel mirino dei pm

Villa Serena nella bufera La prova degli aborti nei rifiuti della clinica Suore nel mirino dei pm

Liberazione del 21 marzo 2008, pag. 18
di Anna Bonni
«E' una vera e propria villa col parco nel bello (ed esclusivo, ndr) quartiere di Albaro con vista sul mare... Da oltre 65 anni il reparto Maternità ha visto nascere la discendenza di tante famiglie, al punto da conquistarsi il soprannome di "Clinica dove volano le cicogne"». Stiamo parlando di Villa Serena. E l'incipit su riportato è visibile on line. Basta cliccare su "www.villaserenage.it" per disporre di tutte le informazioni sulla clinica più esclusiva di Genova al centro di un'inchiesta piuttosto inquietante.
Proprio ieri l'altro, frugando tra i rifiuti ospedalieri della "Clinica dove volano le cicogne", sono stati rinvenuti i resti degli aborti volontari recuperati dai box di smaltimento della clinica. Referti, dunque prove tangibili e materiali di ciò che accadeva dentro le mura della clinica finiti nel dossier aperto sul nome del ginecologo Ermanno Rossi che si è tolto la vita lo scorso 10 marzo gettandosi dall'undicesimo piano. Un dossier che si va allargando e che già contiene almeno altri 8 indagati, a cui si aggiungono tre operatori sanitari della stessa clinica. Dossier su cui il sostituto procuratore Sabrina Monteverde non conferma certo alcuna notizia ma fa capire che i prossimi giorni potrebbero rivelare nuove ed eclatanti sorprese. L'indagine, comunque, allo stato attuale prova con certezza almeno una cosa: nella clinica gestita dall'ordine delle Immacolatine, suore del terz'ordine francescano, si praticavano aborti clandestini. E, soprattutto, questione scottante che resta aperta, e al vaglio dei pm, ma che creerebbe uno scandalo non di poco conto, è la seguente: è davvero possibile che i vertici, e dunque le Immacolatine, non sapessero davvero cosa accadeva dentro la clinica da loro gestita? E' verosimile, nella clinica più "in" della città, che si vanta di aver dato - basta leggere sul sito - «discendenza a tante famiglie» che nessuno fosse a conoscenza di quanto accadeva all'interno? E ancora come è possibile che i dirigenti fossero ignari?
Rossi non ha potuto comunque operare da solo. E naturalmente si avvaleva di un'equipe per attuare gli aborti almeno due - precisano i pm - effettuati «in violazione della legge 194», tanto contestata così vituperata così presa di mira dalle gerarchie ecclesiali in giù fino a Ferrara. Presto i pm faranno luce. E proprio in queste ore, ma la notizia potrebbe arrivare anche oggi, si saprà se nel mirino dell'inchiesta sono finite anche le suore. Per il momento le indagini si vanno concentrando sull'anestesista e sulle due ferriste che aiutavano Rossi. Gli investigatori in sostanza dovranno appurare se i tre operatori medici-sanitari che coaudiuvavano Rossi fossero appunto complici o ignari di star praticando veri e propri aborti clandestini. Ufficialmente del resto dai referti risulta che il medico suicida facesse raschiamenti in seguito ad aborti spontanei. E lo stesso anestesista indagato per l'ipotesi di reato di concorso in aborto clandestino dichiara: «Ho sempre avuto fiducia nel dottor Rossi. Secondo il referto si trattava di revisioni della cavità uterina: non potevo sapere che si trattasse di altro e nemmeno ora ho motivo di dubitarne». Da Villa Serena i responsabili ribadiscono la piena e totale estraneità alla vicenda in cui anzi la stessa clinica si dice ormai aver assunto «il ruolo di vittima».
Ma i pm continuano a non esserne affatto convinti e, dopo il ritrovamento dei resti degli aborti effettuati finiti nei bidoni dei rifiuti della casa di cura, l'inchiesta si va espandendo a macchia d'olio sulla "villa chic" finita nella bufera. E sulle stesse Immacolatine.

194, la Lombardia dice no alle linee d'indirizzo

194, la Lombardia dice no alle linee d'indirizzo

L'Unità del 21 marzo 2008

Medici non obiettori in ogni ospedale e niente obie­zione di coscienza per la pil­lola del giorno dopo? La Lombardia rischia di far sal­tare tutto. La regione ieri ha messo uno stop all'approvazio­ne delle linee d'indirizzo volute dal ministro della Salute e al va­glio della Conferenza Stato-Re­gioni. «Non applicheremo le norme di indirizzo. Anzi la Re­gione Lombardia darà parere negativo». Lo ha annunciato l'as­sessore regionale al Bilancio Ro­mano Colozzi. «È un documen­to - ha spiegato - che non condi­vidiamo nel merito, non ci sono motivi pregiudiziali al nostro no. Il provvedimento contiene questioni che nulla hanno a che fare con la 194. Inoltre, è total­mente assente il concetto della tutela della vita fin dalla sua pri­ma fase». L'assessore ha aggiun­to, tra le critiche, il fatto che il provvedimento punti «solo a fa­vorire le politiche contraccettive per prevenire l'aborto: questo è un aspetto, ma non il più impor­tante. È proprio la mentalità abortista su cui invece bisogna lavorare, mentre l'insistenza so­lo sull'aspetto della contraccezio­ne finisce per far crescere una mentalità abortista. Ci sono, in conclusione, vari punti che se­condo noi andrebbero integrafi o riscritti». A quanto si appren­de, le altre Regioni sarebbero pronte a esprimere parere positi­vo sulle linee guida, ma bastereb­be il parere contrario di una sola Regione a far finire il documen­to su un binario morto. Slitta dunque tutto al prossimo 26 marzo. «C'è il consenso di tutte le Regione e dell'Anci - ha detto il ministro della sanità, Livia Tur­co - per approfondire l'argomen­to alla conferenza del 26 marzo.

Stiamo lavorando». Lo slitta­mento mira a favorire una riu­nione tecnica per rendere com­patibile il testo messo a punto dal ministro Turco con la norma­tiva in vigore in Lombardia e la­sciare alle Regioni un certo mar­gine di autonomia che consenta di assumere iniziative sulla mate­ria. Ma il capogruppo Udc alla Camera Luca Volontè accusa: «Il ministro Livia Turco prepara un blitz sulle nuove linee guida per la legge 194. Rinvii e slitta­menti non cambiano la sostan­za delle cose: di questo colpo di mano saranno certamente con­tente le frange antivita ed eugenetiche cui ha sempre dovuto rendere conto, in primis Emma Bonino e Maura Cossutta»

Aborto, da Formigoni stop alla Turco

La Repubblica 21.3.08
Aborto, da Formigoni stop alla Turco
La Lombardia: no alle linee guida sulla 194. Il ministro: le altre regioni sono d'accordo
Il veto potrebbe far saltare l'intesa. Rinviata di una settimana la decisione finale
di Andrea Montanari

MILANO - La Lombardia dice no alle linee guida del ministro Livia Turco sulla legge 194 e la decisione rischia di slittare al prossimo governo. Un rischio al momento ancora teorico, ma che potrebbe concretizzarsi se mercoledì prossimo il veto lombardo, annunciato ieri dall´assessore regionale alle Finanze ciellino Romano Colozzi alla Conferenza Stato-Regioni, verrà confermato. La regione governata da Roberto Formigoni, infatti, ritiene «troppo abortiste» le linee guida proposte dal ministro della Salute. «Nel documento è totalmente assente il principio della vita fin dalla sua prima fase - attacca Colozzi - Invece che prevenire l´aborto questo documento finisce per istigare a commetterlo. Queste linee guida non valorizzano il ruolo attivo dei consultori e dell´associazionismo, che devono favorire la cultura dell´accoglienza. Non si può accettare che la prevenzione sia affidata principalmente alla contraccezione o alla pillola del giorno dopo». Di tutt´altro avviso Livia Turco, che replica polemicamente: «Le altre regioni e l´Anci, che rappresenta i comuni, sono d´accordo». Per uscire dall´impasse, la riunione decisiva è stata rinviata di una settimana. «Per permettere a un tavolo tecnico - aggiunge il ministro - di rendere compatibile le linee guida del governo con la normativa vigente in Lombardia». Che, ad esempio, da quest´anno, hanno ridotto dalla ventiquattresima alla ventiduesima settimana di vita del feto il limite per praticare l´aborto terapeutico.
Il veto della Lombardia potrebbe comunque vanificare tutto, dato che le regole stabiliscono che l´intesa si raggiunga solo all´unanimità. L´assessore Colozzi è categorico: «Non ci accontenteremo di un lifting. Le distanze sono enormi e su troppi punti. Se vinceremo le elezioni il nostro governo varerà linee guida completamente diverse. Queste tradiscono perfino lo spirito della legge 194, che vogliamo applicare». Solo poche settimane fa, il centrodestra lombardo si era battuto per far inserire nei principi cardine del nuovo statuto regionale che la «Lombardia tutelava la vita fin dal suo concepimento». Frase che nel testo finale è stato cambiata in «tutela la vita in ogni sua fase» per ottenere il voto bipartisan del Partito democratico.
Il rinvio sulle linee guida non piace nemmeno all´Udc. «I rinvii non cambiano la sostanza delle cose - chiarisce il capo gruppo alla Camera Luca Volontè - Con un blitz compiuto in piena campagna elettorale, che aggira le sentenze amministrative e mortifica la minima decenza parlamentare, il ministro uscente Turco si prepara a emanare le nuove linee guida della 194. Di questo colpo di mano saranno certamente contente le frange antivita ed eugenetiche cui ha sempre dovuto rendere conto». Durissima, invece, la reazione del Pd lombardo. «La posizione della Lombardia è ideologica e pretestuosa - accusano le consigliere regionali Ardemia Oriani e Sara Valmaggi - Il veto sarebbe grave e incomprensibile». Protesta anche Nicoletta Pirotta di Rifondazione comunista: «Il clerico-liberismo di Formigoni tiene sotto scacco la legge nazionale e il diritto di scelta delle donne».
L´ultimo rapporto del ministero della Giustizia definisce ancora «preoccupante» il fenomeno degli aborti clandestini, ma in calo quello degli aborti dei minorenni senza il consenso dei genitori.

giovedì 20 marzo 2008

Trovata morta Chantal Le sue ultime parole «Portatemi alla fine»

Trovata morta Chantal Le sue ultime parole «Portatemi alla fine»
Corriere della Sera del 20 marzo 2008, pag. 19

di Elvira Serra

Chantal non soffre più. Le serrande del suo appartamento, piano terra sul canal de Bougogne, erano tutte abbassate, ieri mattina. «Adesso non c'è davvero più niente da dire», ci aveva risposto in un soffio al citofono il figlio Vincent, poco prima delle dieci.



Chantal Sébire è stata trovata morta nella sua casa di Plombieres-lès-Dijon. «Le cause del decesso sono ancora sconosciute. Faremo i prelievi e le analisi», dice il procuratore di Digione Jean-Pierre Allachi. La verità è che lei non voleva più vivere. Affetta da un tumore terribile che le aveva deformato il volto e le procurava dolori tremendi, si era rivolta al Tribunale di Digione per ottenere il suicidio assistito. I giudici lunedì gliel'avevano negato.



«Ho 52 anni, sono malata da quasi otto. Ho tre figli: Virginie, Vincent e Mathilde. La più piccola ha tredici anni. Mi sono sottoposta a tutte le cure possibili. Mi sono battuta per guarire, ho lottato, ho sperato, ho desiderato riuscirci. Ma ora che vita è quella che mi resta?», aveva protestato lei.



Martedì Vincent, il secondogenito, aveva aperto con stanchezza la porta bianca dell'appartamento numero 32. «Mamma adesso è a letto. E non so che cos'altro potrei dire, per lei». Parlava a bassa voce. In mano una spugna, indosso la tuta da ginnastica, la pelle viola devastata da un eritema. Dietro di lui, nel soggiorno illuminato dalla luce del pomeriggio, una ragazzina con gli occhiali sorrideva, sfoggiando l'apparecchio sui denti. L'unico segno di normalità nella casa che aspettava la morte. Chantal era nella sua camera. Due infermiere si alternavano per assisterla. Quella notte avrebbe dormito da lei la ragazzina dell'apparecchio, poi Vincent, naturalmente, che non l'ha lasciata sola un attimo durante l'ultima battaglia contro la giustizia francese.



«Le mie sofferenze psicologiche potrete immaginarle. I miei dolori fisici sono insopportabili. Allergica alla morfina, non ho modo di alleviarli. I medici propongono di indurmi nel coma farmacologico. Ma che proposta è? Come posso costringere i miei figli a vedermi in queste condizioni?», aveva spiegato Chantal. Era difficile guardarla in faccia. Il tumore che l'aveva aggredita al setto nasale, un neuroblastoma olfattivo, aveva stravolto il suo viso. Lei, già minuta, era smagrita. Non vedeva, non sentiva più i sapori, non riconosceva più gli odori. Ma era viva. «Come si può essere così ipocriti dal negarmi l'iniezione letale, e permettermi invece di rifiutare le medicine, i sedativi, l'alimentazione e l'idratazione artificiale, per morire in dieci-quindici ore, dopo un'agonia terribile per me e i miei figli?», si era sfogata. Alle 18 un medico e un assistente sociale avevano suonato alla porta. «Siamo qui per il controllo».



Madame Sébire aveva trovato un dottore disposto ad aiutarla: Bernard Senet. Avrebbe prescritto lui i dieci grammi di pentothal necessari per il suicidio assistito. «Ma la sentenza del Tribunale di Digione, lunedì, aveva chiuso ogni discussione. Non si può aiutare una persona a morire, così dispone la legge Leonetti, che contempla il rifiuto dell'accanimento terapeutico, ma non il diritto a morire con dignità, come ha chiesto la mia assistita», ha spiegato amareggiato l'avvocato Gilles Antonowicz, del foro di Grenoble. «Io domando di essere accompagnata alla morte come se fosse un atto di amore. Vorrei morire nella mia casa, circondata dai miei figli. Non voglio smettere di respirare dentro una stanza anonima di un hotel di Zurigo, né voglio impiegare mezzi che possano mettere a repentaglio la vita di altre persone o traumatizzare la mia famiglia», era stata la supplica di Chantal ai giudici.



Un gesto di amore. Come quello che Mina Welby ha compiuto per suo marito. Accettando, suo malgrado, la volontà di Piergiorgio di abbandonare il corpo che lo imprigionava. «Io non avrei voluto. Lo volevo lì con me, non volevo separarmi. Ma ho dovuto sostenere la sua decisione. Era il mio ultimo gesto d'amore», ha raccontato. Alle sette della sera di martedì, nel condominio basso di rue Weotenga, è entrata anche una ragazza con i capelli neri raccolti, il completo bianco da infermiera, un sacchetto in mano. «Vengo dalla farmacia, ho la medicina», ha detto al citofono. Dentro, Chantal Sébire si preparava a morire.

Pd e Compagnia delle Opere Pranzo «segreto» di Veltroni

Pd e Compagnia delle Opere Pranzo «segreto» di Veltroni
Corriere della Sera del 20 marzo 2008, pag. 10

di Andrea Garibaldi

Il candidato premier Walter Veltroni getta reti in campo avverso. Pranzo riservato, ieri in una casa d'accoglienza nei dintorni di Pavia. A tavola, i massimi dirigenti della Compagnia delle Opere. Con Veltroni, il giovane e fedele segretario del Partito democratico lombardo, Maurizio Martina.



La Compagnia delle Opere è un colosso economico, costola di Comunione e Liberazione. Ventinovemila imprese, mille organizzazioni no-profit, 500.000 addetti, trentacinque sedi in Italia, tredici all'estero, deposito potenziale di milioni di elettori. Riferimento politico, da sempre, il governatore della Lombardia, Formigoni, Pdl.



Il presidente della Compagnia, Raffaello Vignali, al pranzo non c'era: è candidato in Lombardia con il Partito del popolo della libertà. Ma il vice presidente Massimo Ferlini viene dalla sinistra, la persona giusta per fare da ponte con il nuovo Pd. Dall'altra parte il giovane Martina, 30 anni, caro a Veltroni, era l'uomo con le carte migliori per organizzare il delicato meeting: origini nel bergamasco, dove la Compagnia è radicata, famiglia di tradizione cattolica e dichiarazione come: «Non mi sono mai sentito comunista». Pranzo cordiale, discorsi sulla sussidiarietà, su ciò che le imprese private possono svolgere nelle veci del pubblico.



Prove di affidabilità. Il Pd che si incunea in mondi una volta lontani, invasione di campo potrebbero chiamarla Berlusconi o Formigoni. Dimostrazione che Veltroni nulla lascia d'intentato in questa serrata rincorsa elettorale. Dietro le quinte è sulla scena, n segretario Pd ripete che ci sono ancóra 30 elettori indecisi ogni cento.



Ieri comizi a Pavia, Lodi e Piacenza. Cuore di Lombardia, con sconfinamento emiliano. Le provincie visitate da Veltroni sono arrivate a quota 65, ne mancano altre 45. Vanno registrate 2 nuove toccate a Fini, che il giorno prima aveva attaccato l'ex sindaco di Roma sulla pensione da parlamentare Europeo. A Lodi Veltroni parla di ciò che accadde nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 a Genova: «In qualche caso si è andati ai limiti di una violenza intollerabile ci sono state responsabilità politiche che vanno accertate». Dal pubblico, una voce: «Dove era Fini?». Veltroni subito rende omaggio al lavoro di «tutti i ragazzi che garantiscono la sicurezza nel Paese», ma dice anclie che l'Italia «deve ratificare al più presto la Convenzione sui diritti umani che condanna la tortura». A Pavia e a Piacenza dice che «An è stata presa in questi giorni regolarmente a schiaffoni, sono stati scelti candidati che volevano altri. Del resto ognuno è vittima delle proprie macchinazioni».



La giornata si conclude a Piacenza con la visita spettacolare a casa di Marie Saitta, 15enne. Lo zio militante siciliano del Pd, aveva scritto a Veltroni per dirgli che la nipote sua fervente fan e che voleva invitarlo a casa. Detto, fatto. Corte di pullman scortati fino in periferia e il candidato incontra Marie e famiglia. Rinfresco con cannoli siciliani.

La collina delle ebree velate il burqa non è solo islamico

La Repubblica 20.3.08
La collina delle ebree velate il burqa non è solo islamico
di Alberto Stabile

La rabbanit Keren veste sette lunghi mantelli. Il volto è coperto da stoffa fino agli occhi
La tendenza ha cominciato a diffondersi in Israele malgrado il veto dei rabbini

Gerusalemme. In giro si vedono poco, perché la loro regola prescrive, tra l´altro, di uscire di casa il meno possibile. Ma se decidono di avventurarsi per le strade lo fanno coprendosi dalla testa ai piedi, mani e viso inclusi, con un velo pericolosamente simile a un chador o con un soprabito che potrebbe benissimo essere scambiato per un burqa. Queste però non sono donne iraniane, saudite o afgane soggette alla legge religiosa islamica, ma israelianissime ebree ultra-ortodosse che hanno deciso di portare il precetto della zniuth (modestia) femminile, a nuovi ed estremi livelli, spesso in contrasto con il volere delle famiglie e quasi sempre contro l´opinione dei rabbini.
Il fenomeno ha cominciato a manifestarsi a Beit Shemesh, una delle "capitali" dell´ortodossia arroccata sulle colline della Giudea, tra Gerusalemme e Tel Aviv, dove in un appartamento spoglio, a due piani, sotto il livello della strada, vive la rabbanit (titolo che tradizionalmente serviva ad indicare la moglie del rabbino ma che in questo caso lascia intendere molto di più) Bruria Keren, esperta di medicina alternativa, madre di dieci figli e sacerdotessa della nuova tendenza. Alla base della quale s´intravede un´ideologia che combina l´osservanza più stretta con una forma di femminismo estremo, per cui il corpo di una donna non può essere oggetto di godimento da parte di un uomo, se non per specifica scelta della donna stessa: quindi, in pratica, solo il marito è autorizzato a vedere il volto, o udire la voce, della moglie.
La caratteristica più evidente di questa nuova interpretazione della modestia è ovviamente l´abbigliamento: strati e strati di gonne, fazzoletti, scialli, mantelli e veli, che lasciano scoperti, quando va bene, soltanto gli occhi, per cancellare quanto più possibile il contorno del corpo. Il palmo della mano è coperto fino alla radice delle dita, le calze sono di cotone spesso e le scarpe hanno una suola anti-rumore, perché possano muoversi senza essere udite. Secondo una descrizione comparsa su Ma´ariv, la rabbanit Keren veste dieci gonne di tessuto spesso, sette lunghi mantelli, cinque fazzoletti annodati sotto il mento e tre dietro la nuca ed ha il volto coperto da una pezza di stoffa, da cui sbucano gli occhi. Tutta questa montagna di vestiti è a sua volta coperta da alcuni veli più leggeri, che le scendono dalla cima della testa fino ai piedi.
Naturalmente le regole autoimposte non riguardano soltanto il vestiario: parlare poco (e mai con uomini) e pregare molto (soprattutto, recitare i salmi), uscire il meno possibile di casa, evitare i trasporti pubblici e viaggiare in taxi solo se l´autista è una donna e infine mangiare sano, preferibilmente macrobiotico.
La rabbanit stessa che a detta delle sue seguaci possiede una personalità magnetica e un marito-ombra, non esce quasi mai di casa. Occupandosi professionalmente di medicina alternativa, non ha bisogno di uscire per lavorare e riceve le sue pazienti in casa. In casa dà pure un´unica lezione settimanale alle sue fedeli e per il resto cerca di non parlare più di quattro ore alla settimana, comunicando, quando è necessario, per mezzo di bigliettini o con le mani. La maggioranza della giornata la passa in «digiuno della parola» e in preghiera. Le sue fedeli dicono che in queste ore la rabbanit «acchiappa gli angeli».
Inizialmente, a seguire l´esempio di Bruria erano state soltanto poche giovani donne fra i 20 e i 30 anni, ma presto la nuova maniera d´intendere la decenza femminile, o forse soltanto l´illusione di potersi nascondere al mondo, ha cominciato a diffondersi in maniera sorprendentemente veloce, valicando i confini di Beit Shemesh per manifestarsi nei maggiori centri ultraortodossi del paese, inclusa la storica roccaforte degli haredim, il quartiere di Meah Sharim, a Gerusalemme. Motivo per cui non è più raro incontrare una donna ultraortodossa che, anziché indossare la parrucca, la gonna nera fino alle caviglie e le pesanti calzamaglie, ma a viso scoperto, vada in giro avvolta in una specie di chador che tiene fermo con una mano per coprirsi la faccia mentre con l´altra spinge un passeggino.
Molte di loro vivono della vendita di prodotti naturali e macrobiotici, perché - come spiega una delle allieve di Bruria Keren - «la correlazione fra alimentazione sana e modestia è molto stretta e più che ovvia: le donne modeste sono pulite dentro e fuori. Le figlie d´Israele sono figlie di re, e non è opportuno che vengano osservate. Non sono un pomodoro marcio, che chiunque passa per strada è autorizzato a guardare che cosa abbia o che cosa non abbia».
Di tutto questo, probabilmente, non si sarebbe mai parlato se non ci fosse stata una causa di divorzio, intentata da un marito molto insoddisfatto dell´andamento della famiglia, dopo che la moglie era diventata una delle seguaci della rabbanit: la casa a catafascio, i dieci figli abbandonati a loro stessi perché la mamma era occupata a pregare e non comunicava più con loro, le figlie tenute a casa da scuola per svolgere tutte quelle funzione che la madre non svolgeva, non volendo più uscire di casa. Alla fine, la donna si è presentata davanti al tribunale rabbinico completamente coperta da un velo nero, e guidata per mano da una delle figlie. Avendo risposto con un rifiuto alla richiesta della corte di togliersi il velo («Solo mio marito può vedermi in faccia»), il tribunale rabbinico alla fine ha disposto per il divorzio e le ha sottratto la custodia dei figli minori. La donna ha fatto ricorso alla Corte Suprema (laica: ed così che la cosa si è saputa) che ha confermato la sentenza del tribunale rabbinico.
Nel frattempo però la donna è scomparsa con i figli più piccoli, trovando probabilmente rifugio in una qualche comunità ultra-ortodossa.

mercoledì 19 marzo 2008

Vescovi, Veltroni non è Zapatero Basta leggere la storia

Vescovi, Veltroni non è Zapatero Basta leggere la storia
Liberazione del 19 marzo 2008, pag. 6

di Laura Eduati
Il 30 gennaio scorso la Conferenza episcopale spagnola dirama un documento sulle elezioni che si sarebbero svolte il 9 marzo, chiedendo ai cittadini di non votare Zapatero.
A dire il vero, nel documento il premier socialista non viene mai nominato. La formula utilizzata dai vescovi è molto più fine. Dicono agli spagnoli: non votate chi dialoga con l'Eta (cioè Zapatero); non votate chi introduce forme di unione diverse dal matrimonio eterosessuale (cioè Zapatero); né chi tenta di imporre l'ora di educazione civica (cioè Zapatero). Ecco uno stralcio del documento: « Non tutti i programmi sono ugualmente compatibili con la fede e le esigenze della vita cristiana, né sono in ugual misura vicini agli obiettivi e ai valori che i cristiani devono promuovere nella vita pubblica.
I cattolici e i cittadini che vogliano agire in maniera responsabile devono, prima di appoggiare con il voto l'una o l'altra proposta, soppesare le diverse offerte politiche tenendo conto del valore che ogni partito, ogni programma e ogni dirigente concede alla dimensione morale della vita (...). Non si deve confondere l'aconfessionalità o la laicità dello Stato con l'assenza di vincoli morali o l'esenzione dagli obblighi delle morali oggettive ».
« E' importante affrontare con determinazione e chiarezza di propositi, il pericolo di opzioni politiche e legislative che contraddicono i valori fondmentali e i principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano come la difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale, e la promozione della famiglia fondata nel matrimonio, evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuiranno a destabilizzarla, oscurando il suo carattere proprio e la sua insostituibile funzione sociale ».
Parole molto simili a quelle usate ieri dal segretario della Cei, mons. Giuseppe Betori, in riferimento alle elezioni italiane.
La risposta (furiosa) del partito socialista arriva il giorno dopo, il 31 gennaio: « L'immensa maggioranza degli spagnoli, cattolici e non cattolici, difendono lo Stato costituzionale e difendono una società laica, nella quale ogni singola persona abbia il diritto di vivere secondo le proprie idee e convinzioni, senza che nessuno imponga la sua dottrina agli altri. E' evidente che i vescovi che hanno firmato quel comunicato non credono in quel tipo di società. E' per questo motivo che sono così lontani dalla società spagnola di oggi ».
Il 10 marzo Walter Veltroni scrive una lettera di congratulazioni a Zapatero, per una vittoria che sente sua: « Il popolo spagnolo ha premiato il tuo governo che, negli ultimi 4 anni, ha saputo garantire alla Spagna più crescita ed equità e agli spagnoli più diritti e opportunità (...) .
Ieri Veltroni ha commentato benevolmente il comunicato dei vescovi italiani.
E il 17 dicembre, quando il consiglio comunale di Roma discuteva sull'istituzione del registro per le unioni civili, il segretario del Pd si trovava in Abruzzo. Risultato: la delibera non è passata, la maggior parte del Pd ha votato contro. Soltanto pochi giorni prima l' Avvenire e il cardinal Bertone avevano scongiurato Veltroni di non approvare il registro delle unioni civili. Con la benedizione di Paola Binetti.

La Cei precetta il voto cattolico contro donne, gay e unioni civili

La Cei precetta il voto cattolico contro donne, gay e unioni civili
Liberazione del 19 marzo 2008, pag. 1

di Anubi D'Avossa Lussurgiu
Ieri il consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana ha diramato un comunicato. Vi si legge che, non potendosi certo ammettere una «diaspora culturale dei cattolici», essi debbono adoprarsi contro il «rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio». Precisamente «evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla».
Dunque, i vescovi di Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica hanno trovato il modo di rivendicare in piena campagna elettorale il blocco di ogni riconoscimento delle unioni di fatto. E non sfugge all'indirizzo lanciato dai vescovi all'elettorato l'insieme di questioni che vanno sotto l'apodittico titolo di «tutela della vita umana», così rivendicando altri ostruzionismi ottenuti nel Parlamento uscente (e nel governo): come quelli che hanno bloccato ogni iniziativa di superamento della legge 40 sulla "procreazione assisistita" e ogni accenno di testamento biologico.
Né si frena l'offensiva reazionaria contro la libertà delle donne, a partire da quella di scelta sulla maternità. Al punto che il segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Betori ha elargito questa luminosa sentenza: «Il no netto all'aborto da sempre ha fatto la differenza, per i cristiani, rispetto alla società». Addirittura «dal primo secolo». E pensare si credeva una certa differenza «rispetto alla società» l'avessero stabilitea piuttosto le Beatitudini di Gesù di Nazareth...
Ma Betori fa sul serio e giunge a citare «le ruote» dei conventi dove si accoglievano i neonati delle madri povere e/o "reiette": per lui «hanno espresso e possono esprimere ancora oggi un modo per venire incontro alle esigenze delle donne». Esigenze che, evidentemente, sono ben chiare al sacerdozio maschile cattolico.
Tutto questo, però, è servito al monsignore ad uno scopo ben più prosaico. Poter dire cioè che la Curia dubita che «il problema dell'aborto possa essere risolto solo in chiave sociale, sia con una legge, sia attraverso espressioni politiche». E che però «tutto può essere d'aiuto per pronunciare un no all'aborto, in questo momento». Pur velata e vescovilmente paludata, è finalmente giunta l'agognata benedizione attesa da Giuliano Ferrara per la sua lista.
Ora: visto che notoriamente l'ingerenza delle gerarchie d'oltretevere nelle decisioni della Repubblica è uno «spettro» del «vetero-laicismo», ci si dovrà pur stupire della spettralità della politica dominante. Perché solo silenzi e plausi sono venuti, oltre che dall'Udc, sia dal Pdl sia dal Pd. Ad allarmarsi, oltre il solito e meritevole Grillini, è solo la sinistra: con il solo segretario del Prc, Franco Giordano, a parlare di «precettazione» del «mondo cattolico» e di «tentativo di condizionare pesantemente le scelte dello Stato laico». Che per gli altri, forse, non merita più di un Amen.

Sangue e compassione, l’illusione tibetana

l’Unità 19.3.08
Sangue e compassione, l’illusione tibetana
di Ugo Leonzio

PERCHÉ I MONACI si ribellano ai cinesi se l’attaccamento alla casa e al proprio Paese è inutile, se tutto è illusione? La risposta è nel cuore dell’insegnamento buddista, che pone al centro della pratica il risveglio (la liberazione) di tutti gli esseri

Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato.
Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente.
Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento.
È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione.
Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire.
Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc.
Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà.
La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito.
Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wu­ti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura».
Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario.
Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli.
Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista.
Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo.
Il libro dei morti tibetano dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice.
Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione?
Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni.
C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione.
Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo.
C’è un insegnamento più prezioso di questo?

martedì 18 marzo 2008

«Per affermare la laicità ci vorrebbe uno Zapatero ma Pd e Pdl sono simili»

«Per affermare la laicità ci vorrebbe uno Zapatero ma Pd e Pdl sono simili»

Liberazione del 18 marzo 2008, pag. 3

di Tonino Bucci

La politica da una parte, il paese reale dall'altra. E in mezzo un abisso. Nella testa di precari e lavoratori c'è l'ansia per un posto di lavoro e un salario decente, eppure i gruppi dirigenti dei partiti maggioritari continuano a puntare in propaganda elettorale sull'identità cattolica e il rapporto privilegiato con il Vaticano. Perché? Forse ritengono che siano argomenti efficaci. E che in politica vinca chi ha anche un solo voto in più. E quindi meglio non andare controcorrente. Un sondaggio pubblicato ieri da Repubblica sembrerebbe però rovesciare l'ipotesi: anche tra i cattolici ci sarebbe una buona percentuale - la metà - contraria all'intervento della Chiesa nelle decisioni politiche. Non solo. Anche nella maniera d'intendere e vivere la religiosità nella propria sfera privata i cattolici non sono più ortodossi come in passato nel seguire l'insegnamento della Chiesa, ma tendono a un'interpretazione autonoma.


Attenzione però alle conclusioni affrettate. Non è che all'improvviso gli italiani siano diventati laici. Anche perché - stando sempre a quel sondaggio, le posizioni della Chiesa pesano eccome sugli orientamenti dei cattolici in materia di diritti delle coppie di fatto o di eutanasia o di aborto. Ottimista non è Piergiorgio Odifreddi che da poco ha abbandonato il Partito democratico proprio per l'incompatibilità tra il suo modo di vedere il rapporto tra laici e cattolici e quello di Veltroni.



Stando al sondaggio anche i credenti sarebbero per l'autonomia della politica. Le sembra verosimile?


Mi sembra una conclusione ottimistica. Se questi sono i risultati significa che l'altro cinquanta per cento è favorevole all'intervento della Chiesa in politica. Ma soprattutto anche chi pensa che non debbano esserci ingerenze, ritiene che di fatto il Vaticano non sconfina. Non vede proprio il problema. Non ne riconosce l'esistenza. Non si tratta solo di una disinformazione di massa. Anche la classe politica di questo paese fa finta che il problema dell'ingerenza non esiste. Veltroni stesso lo ha detto esplicitamente in un suo discorso davanti ai parlamentari cattolici del Pd. Ai suoi occhi chi accusa la Chiesa di ingerenza ha una visione anacronistica. A me sembra una posizione fuori dal mondo.



Gli stessi cattolici cominciano a pensare che i politici italiani si lascino influenzare un po' troppo dal Vaticano. Ergersi a difensori della cristianità non potrebbe rivelarsi controproducente per gli stessi partiti? Non è ormai una pratica inflazionata e ipocrita?


Io spero che questi partiti vengano puniti, che alla lunga il richiamo all'identità cattolica possa annoiare gli stessi credenti. In Spagna Zapatero è stato premiato per la battaglia contro le gerarchie della Chiesa. Da noi, invece, finora sta accadendo il contrario. Siamo ancora in un clima di compromesso storico. L'Italia ha perso l'occasione nell'Assemblea costituente quando Togliatti decise di votare l'articolo 7 sul Concordato. E i privilegi della Chiesa continuano ancora oggi. L'ultimo governo Prodi ha sancito l'esenzione degli enti ecclesiastici dal pagamento dell'Ici.



Gli italiani hanno una concezione del divino a proprio uso e consumo senza saper nulla di dogmi e teologia. Ratzinger fa una crociata per marcare i confini dell'identità cattolica. Non sarà una reazione al fatto che la Chiesa sta perdendo presa sulla società italiana?


Sì. L'ho scritto e sostenuto. Penso che il pontificato di Ratzinger sia la reazione di un vecchio leone moribondo - o almeno lo spero. La religione cattolica, a differenza di altre, è una burletta. Scopriamo che tra i cattolici i praticanti che vanno in Chiesa sono solo il trenta per cento. Però il novanta per cento degli italiani battezza i figli. E magari vorrebbe mandare alle scuole private cattoliche. Non c'è serietà. Chi conosce i dogmi? Chi ha letto i Vangeli? Chi conosce le differenze fondamentali tra cattolici e valdesi? Però tutti si sposano in chiesa e danno soldi alle parrocchie. Questo è il cattolicesimo in Italia, è proprio la religione su misura per gli italiani. Oggi vai al Family day, domani dall'amante. Quel che mi preoccupa invece è il potere politico papale.



Il mercato elettorale dà molto spazio ai temi religiosi, eppure questi problemi non sono in cima alle principali preoccupazioni degli elettori. Contano di più lavoro e salari. E poi i cattolici praticanti sono ormai una minoranza in questo paese. Non è tempo di dire che il problema dell'identità religiosa è sovrastimata?


E' vero, i cattolici praticanti sono una minoranza. L'identità religiosa non è certo in cima ai pensieri degli elettori. Le preoccupazioni sono ben altre. Tuttavia oggi nei paesi occidentali le elezioni si vincono con scarti minimi. Basta un pugno di voti per battere l'avversario. E allora si raschia il barile, si raccoglie tutto quello che si può raccogliere. Il Pd ha fatto entrare anche i radicali che sono agli antipodi. Conteranno poco, però il loro uno per cento può essere determinante. Così funziona oggi la politica, per calcoli aritmetici. I grandi partiti non hanno il coraggio di prendere posizioni controcorrente su questioni elettoralmente rilevanti come il tema dei rapporti tra Stato e Chiesa con l'intenzione di non perdere neanche un voto. Ma chi può dire se invece non convenga politicamente prendere posizioni chiare e in controtendenza? Guardiamo al caso della Spagna. Lì Zapatero ha condotto una battaglia coraggiosa contro le gerarchie cattoliche ed è stato ripagato. Tutto il contrario di quanto avviene in Italia.



Ciò nonostante Veltroni ha gioito per la vittoria di Zapatero e ha dichiarato di volerne seguire l'esempio. Non è un controsenso?


E' un modo di fare politica con le parole e non con i fatti. Prevale l'italianità più deleteria. Si dice evviva Zapatero ma poi tra Zapatero e Veltroni c'è una differenza come tra il giorno e la notte.



Il Pd ha lasciato per strada il tema della laicità. E ha preferito puntare su alcune operazioni d'immagine per dare l'idea di un rinnovamento della politica. Ma sul piano dei programmi lo scarto dal Pdl è minimo. Il veltronismo è una variante di sinistra del berlusconismo?


Non ci sono differenze sostanziali tra Pd e Pdl. Anche in quelle che sembrano novità simboliche le pratiche si assomigliano. Si spaccia per innnovazione la scelta di personaggi che non vengono al mondo della politica e che dovrebbero rappresentare il paese che produce o i giovani o le donne. Ma dietro le quinte la verità è un'altra. Magari si sceglie il figlio di un industriale perché il papà finanzia il partito. Oppure si candida una ragazza inesperta di politica perché è la protetta di un dirigente. Vogliamo dirlo che funziona così?



Forse a sinistra paghiamo le conseguenze per non aver capito quanto in profondità il berlusconismo abbia cambiato il paese. Il Pd non rischia di assomigliare un po' troppo al suo avversario?


Borges in un suo racconto, Deutsches requiem , descrive la figura di un gerarca nazista condannato a morte che dice di morire contento perché il nazismo è stato sì sconfitto ma tutti sono diventati nazisti. Perché il nazismo è così perverso che per combatterlo si finisce con l'assomigliargli. Fuor di metafora il berlusconismo è un modo così perverso di fare politica che per batterlo si è finito con l'assumerne le stesse sembianze. Il veltronismo è una fotocopia del berlusconismo. Stesso modo di scegliere i candidati, di puntare sull'immagine. E, soprattutto, senza differenze sostanziali tra i programmi del Pd e del Pdl. Se questo è il modo di battere Berlusconi io non ci sto.



A parole tutti si dicono laici. Ma non appena qualcuno sostiene che lo Stato deve essere autonomo dalla Chiesa subito è accusato di laicismo. Ha senso questa distinzione tra laicità e laicismo?


E' una distinzione senza senso. Ormai le parole hanno perso il loro significato autentico. La Binetti, per esempio, si ritiene una laica. E ritiene che l'Opus Dei sia un'istituzione laica. Se è così abbiamo bisogno per davvero di un'altra parola. Così nel campo della scienza. Nessuno, almeno a parole, ha il coraggio di mettersi contro lo sviluppo della scienza. Monsignor Fisichella si definisce un teologo scienziato. Ma se gli dici che non può esserci ricerca scientifica a partire dai dogmi sei tacciato di "scientismo".