lunedì 17 marzo 2008

Contro quelli che del Tibet se ne fregano

Contro quelli che del Tibet se ne fregano

Il Riformista del 17 marzo 2008, pag. 1

Siamo tutti tibetani. È lo slogan della manifestazione che noi del Riformista, assieme a Radio radicale, abbiamo indetto per mercoledì a Roma. L'espressione «siamo tutù qualcosa» non è originale. Siamo tutti americani, scrisse Ferruccio de Bortoli il giorno dopo l'abbattimento delle Due Torri di New York. E siamo tutù iraniani dicemmo, sempre noi del Riformista, quando scendemmo in piazza per sostenere gli studenti di Teheran. Queste metafore originano infatti da un unico antenato, il celebre discorso che John Kennedy tenne nel giugno del 1963 a Berlino, proprio di fronte al Muro. «Io sono berlinese», disse, spiegando che la libertà è un bene indivisibile, e che nessun uomo è davvero libero se un altro uomo è in schiavitù. E un concetto particolarmente importante per i democratici e i progressisti. Ha scritto Adriano Sofri nel suo ultimo pamphlet: «Da molto tempo penso che una differenza essenziale tra la destra e la sinistra (beninteso) sia questa: che la destra si tenga ben stretta dentro i suoi panni, e che la sinistra voglia uscirne per mettersi nei panni altrui». Per questo la sinistra è nata internazionalista, mentre la destra nazionalista.



Siamo tutti tibetani, dunque. Ma è vero? Certamente no, altrimenti non ci sarebbe bisogno di andarlo a dire in una piazza Non siamo affatto tutti tibetani. Anzi Tra di noi, per esempio, ci sono molti «cinesi», persone per bene che però non vogliono guai, che sanno che la Cina è già una superpotenza. Che pensano che i nostri commerci e i nostri affari richiedono discrezione e prudenza. O che semplicemente hanno paura di rompere le scatole in difesa di un piccolo popolo che, in fin dei conti, è un affare interno cinese. Poi ci sono gli «anti-americani», quelli che sarebbero pronti a tutto in nome di tutù ipopoli angariati dall'altra e più cattiva superpotenza; ma non muovono un dito se non c'è l'occasione di bruciare una bandiera a stelle e strisce. Ispirati e giustificati, forse, da operazioni intellettuali come lo stupefacente articolo che ha scritto ieri Barbara Spinelli sulla Stampa, nel quale pure la tragedia tibetana viene iscritta alla «disfatta morale» dell'America di Bush, ennesima conseguenza della sua aggressività in giro per il mondo. Mentre invece se di qualcosa si può accusare Bush a proposito del Tibet, è proprio di aver dismesso la sua aggressività nel denunciare la violazione dei diritti umani da parte della Cina, togliendola dalla lista nera proprio alla vigilia della rivolta tibetana.



Infine ci sono quelli che sono solo se stessi, e pensano solo a se stessi. Quando papa Ratzinger ieri all'Angelus ha cominciato a dire «basta stragi, basta violenza, basta odio... », abbiamo tutti pensato che stesse per parlare del Tibet, spezzando una lancia per un'altra grande religione, quella buddista, con cui da anni intrattiene un dialogo interreligioso. Sembrava naturale che il papa dicesse una parola in difesa del Dalai Lama. E invece le stragi, la violenza e l'odio esecrati dal balcone di piazza San Pietro erano quelli dell'Iraq, che hanno provocato il martirio del vescovo caldeo di Mosul Per i monaci uccisi, neanche una preghiera.



Tocca dunque a noi essere tibetani. Ma come? La febbre elettorale italiana, che già aveva prodotto i due partiti del no e del sì alle olimpiadi, è stata per fortuna subito spenta dal Dalai Lama stesso: «II boicottaggio non ha senso, Pechino merita i giochi olimpici». Ha ragione. Le olimpiadi, magari, possono attirare lo sguardo del mondo sulla condizione delle minoranze in Cina, e i tibetani sono i primi a saperlo. Ma attenzione: forse neanche il Dalai Lama controlla più il suo popolo. Dopo anni di rifiuti da parte di Pechino alla sua ragionevolissima strada, che non chiede separatismo e indipendenza ma semplice autonomia e rispetto delle tradizioni religiose e culturali di un antico popolo, si ha l'impressione che nelle strade di Lhasa molti tibetani abbiano abbandonato la via della non violenza per esasperazione e sfiducia. L'Occidente può dunque fare molto. Non tacere, intanto, come ha fatto il papa. Urlare in difesa di chi viene massacrato e discriminato. Chiedere, anzi pretendere, la cessazione delle violenze e della repressione, e l'apertura di un dialogo. Minacciare, invece di accondiscendere. Perché il ministro degli esteri della Ue Solana si è affrettato a dire, come Bush, che sarà presente ai giochi? Non potrebbe almeno porre condizioni ai cinesi per la sua partecipazione, a nome della vecchia Europa che ha inventato i diritti dell'uomo? Vogliamo che il prossimo governo italiano faccia subito sentire la sua voce ai cinesi, ma dobbiamo conquistarcelo. Se vincerà Berlusconi, per esempio, non dubitiamo che userà al vertice comunista di Pechino la stessa affettuosa cortesia che riserva al suo amico Putin.

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