domenica 30 marzo 2008

Giuliano, l’aborto e la politica

l’Unità 30.3.08
Giuliano, l’aborto e la politica
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

Partiamo dall’ammissione di una inclinazione intellettuale: i temi di spessore etico, nel confronto politico, sono sovente quelli che più ci appassionano. Ci fanno osservare come l’opinione pubblica possa ancora essere percorsa da istanze forti, da confronti appassionati, tra opzioni legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Tuttavia, non ci sfugge come «politicizzare» talune questioni rischi di tradurne sostanza e argomenti, nel migliore dei casi, in alternative indecidibili: non perché la politica sia indifferente all’etica; piuttosto, perché i conflitti che il diritto è in grado di comporre possono rimanere eticamente inconciliabili, come ben ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere della Sera. Dunque, possono continuare a sollecitare il confronto e il conflitto politici, senza che la pretesa dell’affermazione del Bene trovi mai soluzione normativa.
La battaglia elettorale di Giuliano Ferrara in materia di aborto ha molto a che fare, per quanto ci riguarda, con tali contraddizioni. È evidente che il direttore de il Foglio condivida la stessa passione per la contesa intorno a grandi questioni morali; e che in questa si impegni, anche con coraggio, un po’ alla maniera di chi, allo speaker’s corner di Hyde Park, si erge su uno sgabello e dice la sua. Qui non discutiamo le sue argomentazioni etiche. Ci sarebbe molto, moltissimo da dire (e lo fa benissimo Adriano Sofri in “Contro Giuliano” Sellerio 2008). Bisognerebbe riconoscere talune ragioni e segnalare molte omissioni, e controbattere altrettanti torti. No: qui si discute dell’utilità (e della sostenibilità politica) di quanto Ferrara sta facendo. Ferrara dice di battersi contro l’indifferenza etica all’aborto. Sostiene che si tratta di un omicidio banalizzato a pratica contraccettiva; che la politica non fa nulla per ridurre il numero d’interruzioni di gravidanza; che la legge che regola la materia, in Italia, è applicata solo parzialmente e univocamente; che le donne sono lasciate sole, a fronteggiare i dilemmi della più grave piaga morale del nostro tempo; o che, alternativamente, sono lasciate sole in un lembo di pochezza morale, in cui interrompere la gestazione (uccidere il feto) diviene gesto banale e disimpegnato, estraneo a ogni considerazione sul valore della vita e sui diritti del nascituro. Ferrara sostiene anche che quell’omicidio non fa della donna che lo decide un’omicida; che non intende, con la sua battaglia, vietare per legge l’aborto. Ovvero, egli dice che quello che altri considerano un diritto (ma oggi chi lo considera un diritto? Fuori i nomi e i cognomi, please) deve rimanere facoltà e possibilità estrema; e che l’autorità pubblica deve intervenire, fin dove possibile e senza opporre divieti ultimi, per prevenire il concretizzarsi di quella facoltà in pratica abortiva.
In molti hanno già chiesto a Ferrara che senso abbia organizzare una lista, dunque proporre una rappresentanza parlamentare, avendo a riferimento della propria azione una norma vigente che si dice di non voler cambiare. Probabilmente, al suo promotore basta aver convocato l’attenzione e l’intelligenza di molti sulla questione che solleva; probabilmente considera di già una vittoria il «semplice» fatto di aver iscritto, nell’agenda dei temi dibattuti dalla politica e dalla cultura le sue (e con lui di altri) riflessioni sul valore della vita, sul concetto di «persona», sull’eugenetica, sulla qualità morale del nostro tempo. Tuttavia, una vittoria di questo genere (già rivendicata) ha il sapore - ci si perdoni - di una marachella; di un’astuzia (veniale, se si prendono per buoni gli argomenti di Ferrara e al peso di quelli la si commisura) che tale è e tale rimane, con tutto il suo portato di strumentalità. Come a dire: certo, fare una lista antiabortista per non cambiare (dobbiamo crederci? ma si, ci crediamo!) la 194 è cosa contraddittoria, apparentemente inutile; ma quell’offerta elettorale non ha volontà di incidere sul nostro ordinamento (e a che serve allora?), ma è un modo dirompente per far discutere di una questione importante. D’accordo, accettiamo anche questo argomento.
Ferrara vuole «mandare in Parlamento un gruppo di pressione che, su un tema centrale dell’esistenza moderna, abbia lo specifico mandato politico di promuovere la battaglia contro l’aborto e per la vita in tutto l’arco della sua manifestazione, che è cosa diversa dall’abrogazione delle leggi che oggi regolano l’interruzione di una gravidanza». Se ciò che gli sta a cuore fosse promuovere una serie di leggi di welfare mirate a scongiurare tutta quella quota di aborti dovuti a un deficit di tutela economica, sanitaria, occupazionale delle donne, noi ci iscriveremmo subito subito alla sua lista. Invece no, lo sappiamo ed è chiaro: Ferrara ha in odio la sciatteria morale di quella donna che abortisce per non ritrovarsi i glutei smagliati; che interrompe la gravidanza per l’ennesima volta, pur avendo mezzi economici ed emancipazione a sufficienza per praticare la contraccezione; che compie quel gesto senza avere contezza (senza affrontare un dramma morale intimo) del portato della sua decisione. Ed è su questo - principalmente - che insiste la sua azione politica. Su quelle forme di degrado morale e sulle cause, prossime e remote, complesse ed epocali, che quelle determinano. La politica può fare qualcosa per intervenire su tutto ciò? Qualcosa che non sia un comitato etico di riconoscimento della liceità morale psichica e sociale, oltre che sanitaria, per ogni istanza di aborto in ogni consultorio e in ogni ospedale? Ovvero: l’autorità pubblica, secondo Ferrara, dovrebbe avere modi e strumenti per indagare la coscienza individuale e le pieghe dell’esistenza degli individui, per decidere quando un aborto è motivato e quando invece non lo è? E in questo secondo caso cosa può fare? Vietare no, a quanto lo stesso Ferrara sostiene, e dunque? Biasimare formalmente la pochezza morale di talune donne? Impegnarsi in qualche pratica di moral suasion? Insomma: cosa produciamo sanzionando moralmente l’indifferenza etica all’aborto? Se si tratta di combattere la povertà spirituale del nostro tempo, beh, nessuna battaglia in questa direzione che assegni allo stato diritto e compito di limitare il libero arbitrio della persona potrai mai dirsi liberale. Se non è questo ciò a cui si mira - se la battaglia contro il degrado etico non passa per una revisione legislativa che renda più difficile abortire - non c’era bisogno di presentare una lista elettorale: non si va in Parlamento per far applicare le leggi (per far applicare in tutto il suo portato la 194); ci si va per farne di nuove o per modificarne di già esistenti. Poteva bastare, allora, scrivere, dibattere, informare, criticare. O impegnarsi, anche attraverso forme di azione volontaria, per promuovere le pratiche contraccettive, per accogliere più dignitosamente i migranti (già, sono le donne straniere, oggi, quelle che nel nostro paese abortiscono più frequentemente), per operare contrastando il disagio sociale di molte donne «istigate» all’aborto dalle persistenti iniquità di una società spesso eticamente agnostica. C’è chi, alcune (e solo alcune!) di queste cose già le fa; animato da una volontà di contrasto del «peccato» che si traduce, ancora una volta, in un giudizio morale sull’autodeterminazione della donna che sappiamo essere inesorabile. No: non fa bene a chi non vuole essere madre, a chi vorrebbe esserlo ma sente di non poterlo; e a chi deve ancora nascere.Scrivere a:
abuondiritto@abuondiritto.it

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