mercoledì 9 aprile 2008

«La vera eredità europea non è cristiana»

Corriere della Sera 9.4.08
Dialogo Il grande intellettuale bulgaro spiega il suo distacco dallo strutturalismo. E risponde alle obiezioni di Cesare Segre sulla funzione della critica
«La vera eredità europea non è cristiana»
Tzvetan Todorov: le nostre radici sono nell'Illuminismo, che significa pluralità di culture
di Paolo Di Stefano

PARIGI — Dalla critica letteraria alla storia della cultura. Dalla letteratura alla filosofia morale, al pensiero politico. E ritorno. L'itinerario di Tzvetan Todorov è solo in apparenza imprevedibile, e chi ha visto nell'ultimo libro dello studioso bulgaro il risultato di una «conversione» semplifica le cose. È vero, è stato uno dei pionieri dello strutturalismo e ora, con La letteratura in pericolo (Garzanti), mette in guardia dall'abuso degli strumenti critici. Ma quarant'anni dopo, Todorov è diventato uno degli intellettuali europei più autorevoli grazie alle sue riflessioni sulla memoria, sui regimi totalitari, sulle ideologie, sull'identità. Un cammino molto lungo da quando, ventiquattrenne, nel '63 lasciò Sofia per stabilirsi a Parigi, accanto ai mostri sacri Barthes e Genette. C'è anche una questione autobiografica dietro la svolta di oggi.
È di questo che Todorov parla, tranquillamente seduto a un tavolino del Café de la Contrescarpe, che guarda su una piazzetta a due passi dal Panthéon: «In Bulgaria era una necessità affrontare gli elementi che sfuggivano all'ideologia: stile, forma narrativa, tecnica compositiva. Ma stando in Francia, è venuto meno il tabù che pesava sulle idee, sulle relazioni tra letteratura e mondo. Dunque a poco a poco ho maturato una coscienza nuova: mi sono reso conto che per avanzare in una migliore comprensione dell'essere umano, che è l'obiettivo delle scienze umane, è necessario mettere in gioco la propria stessa esistenza». Così le pretese scientiste del formalismo, nell'approccio alla letteratura, venivano messe in crisi: «Capii che non potevo più esercitare la mia intelligenza su un oggetto come se mi fosse estraneo: è stata la mia biografia a portarmi verso argomenti come l'altro, l'incontro di culture, le scelte morali imposte all'individuo dal totalitarismo».
Dopo studi memorabili quali I formalisti russi
e La letteratura fantastica, nei primi anni '80 si arriverà a La conquista dell'America. Fino agli studi sull'Illuminismo («il pensiero di un'epoca non abita solo nei libri di filosofia, ma anche nelle opere d'arte: il mio sogno è scrivere una storia dell'Illuminismo attraverso la pittura») e al pamphlet
sull'Europa: «Si parla tanto di eredità cristiana, ma l'Europa ha anche una tradizione greca, romana, ebraica, musulmana, del libero pensiero. Il suo statuto è la pluralità. Il richiamo ai Lumi, che per la prima volta hanno percepito il pluralismo come virtù, mi sembrerebbe più attuale e indispensabile che il richiamo alle origini cristiane: la decisione di accogliere le diversità è un'invenzione esclusiva dei Lumi e certamente non appartiene a nessuna tradizione religiosa. Lungi da me ogni velleità di ignorare la funzione del Cristianesimo nella nostra cultura, ma sul piano politico, come cittadini dobbiamo riconoscere che sono stati i Lumi a svolgere il ruolo decisivo».
Torniamo al problema dell'altro: «Ho vissuto ormai in Francia il doppio del tempo che ho vissuto al mio Paese, ma sono sempre uno straniero. È una condizione che fa parte di me. Alla fine degli Anni 70 andai in Messico, lessi le cronache di viaggio e le relazioni dei conquistadores,
e ne rimasi abbagliato, come se quella gente del XVI secolo mi rivelasse la mia identità di uomo del Novecento ». Una conversione già allora?
Non proprio: «Per interpretare quei documenti provai a servirmi di tutto ciò che avevo imparato nelle analisi letterarie: ne venne fuori una specie di semiotica del comportamento dei conquistatori da una parte e degli indiani dall'altra. Il mio bagaglio strutturalista mi serviva per capire una realtà storica. Ancora oggi cerco di convocare tutti i metodi utili e i tipi di sapere: lo studio delle strutture e dello stile, la storia, l'approccio sociologico, marxista o psicoanalitico. Per questo non penso proprio di aver compiuto una svolta di 180 gradi».
Niente conversione, dunque. Todorov parla di «glissement»: «Nel mio caso si è prodotto uno slittamento durato trent'anni: il metodo è solo uno strumento di conoscenza e non bisogna confonderlo con l'oggetto della conoscenza, che è il senso di un'opera letteraria, e cioè un insieme che risponde a una preoccupazione esistenziale e comprende le forme, gli eventi narrati, le idee, i significati, la morale, la politica, la storia. È questo che deve trasmettere l'insegnamento scolastico». Si tratta di orientarsi più sui contenuti, sul messaggio? «Non parlerei semplicemente di contenuti. A scuola bisogna capire che cos'è la letteratura e che cosa trasmette sul piano esistenziale. Oggi si parla di antropologia, sociologia, psicologia, ma per molto tempo queste scienze non esistevano e il sapere sull'essere umano e sulla società lo si trovava solo nella letteratura. Sarebbe criminale dimenticare tutto questo.
Se Freud aveva l'umiltà di sostenere che i romanzieri erano i suoi maestri, tanto più noi tutti dovremmo riconoscerlo».
E a chi rimprovera a Todorov e ai suoi vecchi compagni di viaggio di essere stati fondamentalisti del metodo, come risponde? «Era il fondamentalismo dei neofiti, l'eccitazione della scoperta, l'entusiasmo nel riproporre vecchi testi dei formalisti Anni Venti. C'era un'effervescenza internazionale che coinvolgeva anche studiosi italiani come Segre, Maria Corti, Eco, Aldo Rossi. Ma certo, alla lunga si continuava a concentrarsi sugli strumenti e sulle forme, e le forme sono solo un modo per far vivere il senso di un'opera ». Come ha scritto Alessandro Piperno sul Corriere, oggi certe formule, come «la morte dell'autore» inventata da Roland Barthes, fanno un po' sorridere. Si può ancora essere d'accordo? «Barthes aveva una personalità che non si riduceva a nessuna delle formule che era capace di inventare. Maneggiava la lingua con straordinaria facilità e prestava la sua eloquenza a ogni tipo di idee. Direi che il vero Barthes non era in questa o in quella formula. Un giorno scriveva La morte dell'autore e il giorno dopo poteva scrivere un libro intitolato Roland Barthes visto da Roland Barthes, da cui si deduceva che l'autore non era affatto morto».
Dimenticato Barthes, quali sono i critici del nostro tempo che puntano diritti verso il senso della letteratura? Todorov si accarezza la nuvola di capelli bianchi e fa non più di due o tre nomi: l'americano Joseph Frank («che studiando Dostoevskij come nessuno aveva fatto prima, unisce diversi ingredienti: contesto sociologico e ideologico, analisi strutturale, biografia»), il francese Paul Bénichou («che si occupava di letteratura da storico delle idee»), lo svizzero Jean Starobinski («un grande commentatore più che un teorico»).
Quella che proprio Todorov non sopporta è la critica che asseconda la voga letteraria, particolarmente francese, del nichilismo: «La critica giornalistica spesso considera la letteratura come un'entità separata dal mondo esterno e la tratta come una pura forma attraverso cui si affermano il nulla, la catastrofe, la fine. Io credo che nessuno possa vivere e scrivere con una visione totalmente nera della vita. Leggo certe critiche in cui si dice: questo autore rivela l'inesistenza assoluta di ogni sentimento umano, la distruzione di tutti i valori... Uno scrittore o un critico finiscono di scrivere queste cose e poi necessariamente tornano alla vita di tutti i giorni: abbracciano il loro amore, si preoccupano dei figli, preparano da mangiare, partono in vacanza, vanno al cinema, eccetera. Insomma, continuano a fare tante cose normali e positive al di là delle loro dichiarazioni di disperazione infinita. Tutto ciò rivela una rottura tra letteratura e mondo. Ora, secondo me si può dire tutto in un romanzo, ma ci si dimentica spesso che c'è una continuità tra letteratura e vita».
Qualche nome. Houellebecq? «È uno dei grandi rappresentanti del nichilismo contemporaneo ». Altri? «Elfriede Jelinek e il classico del genere: Bernhard. Non ha importanza che non mi piacciano. Ricordo solo che anche i testi più disperati di Beckett, attraverso la loro bellezza, la perfezione, la capacità di far ridere, comunicavano comunque una speranza».
Secondo punto dolente della narrativa d'oggi, quella che Todorov chiama «egoletteratura»: «Non so in Italia, ma in Francia ci sono scrittori che per 250 pagine raccontano in ogni dettaglio i propri amori, gli incontri quotidiani, il sesso, le rabbie, i litigi, le separazioni e poi i divorzi. È la cosiddetta autofinzione, una formula lanciata qualche anno fa per dire che si può fare letteratura partendo da fatti strettamente riservati: uno statuto intermedio tra l'autobiografia e la finzione, che produce libri secondo me molto poveri, romanzi che raccontano un mondo a parte, confinato, personale, senza conflitti, senza banlieue, senza immigrati, senza le trasformazioni della mondializzazione. Ma detto questo, io mi astengo dal dare consigli agli scrittori. La letteratura è una cosa troppo seria...».
Un autore che va in un'altra direzione? «Il romanzo americano ha la forte tradizione di parlare del presente, e a me piacciono i romanzi che ti interpellano sui grandi temi che viviamo. Ma se devo fare un nome, mah, penso a un autore spagnolo: Antonio Muñoz Molina. I suoi romanzi in genere fanno riflettere sul nostro tempo, sul mondo, sulla società, sulla violenza, sulle guerre civili. E sono fuochi d'artificio di complessità, di pluralità, di voci, di tempi narrativi e di punti di vista. Sono aperti al mondo e appassionati alla forma ». Piacerebbero anche agli ultimi strutturalisti.

Nessun commento: