martedì 8 aprile 2008

La lezione di Galileo e il ruolo delle scienze esatte

Corriere della Sera 8.4.08
Una ragione libera che unisce vita, simboli e teoria dei giochi. E così pensiero debole e società liquida diventano opportunità
Dalla caduta dei dogmi nasce il neoilluminismo
La lezione di Galileo e il ruolo delle scienze esatte
di Giulio Giorello

Sul finale della Prima Giornata del Dialogo sopra i massimi sistemi (1632) di Galileo Galilei, uno degli interlocutori (Sagredo) si rivolge agli altri due (l'aristotelico Simplicio e il copernicano Salviati) tessendo l'elogio delle arti — dalla musica che produce «diletto mirabile dell'udito» alla pittura capace di rappresentare gli oggetti tridimensionali su una tela a due dimensioni. «Ma sopra tutte le invenzioni stupende» va lodata l'arte di chi comunica «i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo», anzi parla «con quelli che sono nelle Indie... con quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni»: e tutto solo «con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta». Galileo celebra così linguaggio, scrittura e arte della stampa.
Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse posseduto Internet! Del resto, già nel Saggiatore (1623) aveva dichiarato che il mondo intero altro non era che un grande volume compilato da Dio «in caratteri geometrici». Come dire, studiate matematica e diventerete lettori della scrittura divina, che non coincide necessariamente con la Sacra Scrittura, cioè con la Bibbia, traduzione umana del dettato del Signore.
Queste battute del «maligno pisano» — come Carlo Emilio Gadda con burbero affetto chiamava il grande Galileo — mi sono tornate alla mente quando il mese scorso ho presentato al Festival della Matematica di Roma Allen Knutson, newyorchese di nascita e californiano d'adozione, matematico premiato e plurilaureato, nonché detentore (1990-1995) del record mondiale della International Jugglers Association in quei «giochi di palla» che affascinano «grandi e piccini» sulle pubbliche piazze. Da tempi immemorabili l'arte della «giocoleria » (o all'inglese, juggling) viene praticata con gli oggetti più diversi: sferette, clave, torce, coltelli e persino uova (mezzo quest'ultimo dispendioso e sporchevole se non si è molto bravi!).
Dal 1985 i Sagredo di turno hanno inventato un linguaggio matematico per esprimere l'essenziale di questa «nobile arte». Negli Usa la chiamano Siteswap; in Inghilterra, notazione di Cambridge. L'idea di fondo è che descrivere con il nostro linguaggio quotidiano tutte le tecniche del giocoliere sia compito arduo, se non impossibile: «Dovremmo essere capaci di descrivere la posizione di ogni muscolo del corpo di chi compie l'esercizio, in ciascuna frazione di secondo», dice Allen. Dovremmo essere come l'Ireneo Funes di Borges, in grado di avvertire il rumore di un filo d'erba che cresce! In mancanza di queste doti straordinarie, ci soccorre la matematica.
Il «linguaggio di Cambridge» si limita a indicare la mano che lancia l'oggetto, quella che lo prende, il numero di oggetti lanciati, l'istante del lancio e la cosiddetta durata di volo. Basta combinare opportunamente questi dati non solo per descrivere tutti i «trucchi » del giocoliere, ma per suggerire nuovi e impensati schemi — proprio quelli che fa vedere sul palco Allen, per la gioia di chi è rimasto nel suo cuore ragazzo e per la soddisfazione di chi continua a pensarla come Galileo. Inoltre, applicazioni di questo genere, non diversamente da quelle più tradizionali alle scienze naturali o all'economia, rivelano connessioni insospettate (nel caso di Knutson persino con le particelle e le antiparticelle della fisica).
Non è che l'ennesimo esempio della potenza del simbolico, come sa qualsiasi studente d'algebra. È operando su simboli, poniamo lettere dell'alfabeto — che magari stanno per altri simboli, i numeri di un calcolo aritmetico — che si impara a padroneggiare le più diverse situazioni, mentre se restassimo troppo legati alla natura degli oggetti considerati ci troveremmo in maggiore difficoltà, o magari non ce la caveremmo del tutto. Il fisico e fisiologo Ernst Mach la chiamava «economia di pensiero»; sembra quasi che i segni che tracci su carta o che digiti sullo schermo del computer siano più intelligenti di te, come già constatava Albert Einstein; tanto più che «il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario », come dichiarava il filosofo Ernst Cassirer. Proprio lui doveva dedicare gran parte della sua riflessione al simbolismo come punto di incontro di tutte le forme spirituali più diverse: dall'impresa tecnico-scientifica all'arte, alla religione e al mito.
Ma se le cose stanno così, non potrebbe anche il segno matematico essere contaminato da quell'ambiguità che è così presente in altre «forme simboliche» come le icone della fede o quelle della politica? Leggo nel recente volume di Elio Franzini, dedicato a I simboli e l'invisibile (il Saggiatore), che i simboli sono evidenze storiche e culturali il cui senso non si esaurisce alla prima occhiata, ma «richiedono interpretazioni, sguardi stratificati». Ben più «maligno» di Galileo, il lunatico irlandese George Berkeley insinuava che gli stessi matematici erano «giocolieri» che praticavano trucchi linguistici e psicologici (per esempio, nel calcolo infinitesimale: dove pretendevano di poter utilizzare nei calcoli «quantità più piccole di qualsiasi quantità concepibile»!).
Con il senno di poi, la matematica ha saputo rendere rigorosa la sua attività simbolica, mettendo ordine nell'anarchia dell'invisibile che aveva generato. Ma nella stessa proliferazione di arti, tecniche e scienze dei nostri giorni sembra difficile indicare un principio unitario, un «fondamento», cui ricondurre i molti strati del simbolico. Come constatava agli inizi del Novecento Mach, «il mondo è suddiviso e ritagliato dalle astrazioni, e questi frammenti parziali appaiono così aerei e privi di sostanza da insinuare il dubbio se sia ancora possibile reincollare il mondo». Forse, è qui che va cercata l'origine di un malessere che oggi chiamiamo con molti nomi: modernità «liquida », pensiero debole, paura della scienza, «relativismo», morte dell'arte e angoscia della tecnica. Eppure, è stato l'abbandono del fondamento che ha permesso al pensiero di conquistare orizzonti nuovi e sconfinati. Osserva Franzini che per quel fondamento possiamo provare una qualche forma di nostalgia, ma tale passione alla fine diventa tensione verso il nuovo, «ricerca del senso stesso del percorso, della volontà di costruire forme ». È dallo spregiudicato riconoscimento di questa nostra condizione che può oggi muovere un rinnovato Illuminismo. Dopodiché, come dicevano i personaggi del Dialogo galileiano, finito di discutere come vanno i cieli (o di come si può algebrizzare persino il lancio di clave o palline nella «giocoleria»!), ci si può permettere di «gustar per qualche ora il fresco nella gondola che ci aspetta».

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